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Come cambia il lavoro nell'era del postfordismo e della globalizzazione

di Amelia Paparazzo

Gli attuali livelli di disoccupazione nei paesi industrialmente avanzati [...] non sono il prodotto di una più o meno temporanea crisi dello sviluppo. Sono, al contrario, la forma stessa dello sviluppo . Uno sviluppo che appare "irreversibile", inarrestabile, che si articola attorno a tre fattori fondamentali: la mondializzazione dei mercati, l'automazione spinta, la fine del radicamento delle imprese al territorio e il loro porsi come imprese transnazionali. Mondo del lavoro, rapporti politici, organizzazioni partitiche, funzione degli Stati: tutto viene rimesso in gioco, stravolto nei suoi assetti tradizionali.
Marco Revelli, in La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro (Bollati Boringhieri, Torino, 1997) ricostruisce e delinea sia i mutamenti prodotti nelle società opulente dallo sviluppo capitalistico nelle forme in cui negli ultimi venti anni è venuto determinandosi, sia le difficoltà di organizzare risposte credibili, sia, infine, l'inadeguatezza di proposte ancora tutt'interne a forme ormai superate di gestione del conflitto.
Il dato su cui prende corpo e si articola l'analisi di Revelli è tangibile, visibile a tutti: l'alta crescita dei livelli di disoccupazione e i cambiamenti profondi, strutturali, registrati nell'organizzazione del lavoro. L'Europa ad un primo sguardo, appare come la parte del mondo in cui in maniera più manifesta la crisi occupazionale coinvolge settori produttivi diversi. Rilevazioni statistiche recenti ci forniscono il dato di 23 milioni circa di disoccupati nel vecchio continente. Né la situazione appare migliore negli Stati Uniti che pur sbandierano livelli di disoccupazione contenuti. Le statistiche ufficiali americane, poco attendibili in quanto compilate sulla base di sondaggi, sono confutate da numerosi studiosi i quali calcolano che la disoccupazione e la sottoccupazione coinvolgono circa 35 milioni di persone. Ma anche altri fattori "allarmanti" sono presenti nell'organizzazione del lavoro negli Stati Uniti degli ultimi anni, legati soprattutto alla caduta del salario reale e all'allungamento dell'orario di lavoro. Mediamente si viene pagati di meno per un tempo di lavoro più lungo. La diminuzione media dei salari reali tra il 1973 e il 1995 si aggira sul 13 per cento circa (la crescita, nel quarto di secolo precedente, tra il 1947 e il 1972, era stata del 79 per cento!) (p. 16), mentre l'orario di lavoro si dilata incontrollato (agli inizi degli anni '70 si lavorava in media 1786 ore l'anno, a metà degli anni '90, 1949 ore).
Alti livelli di disoccupazione, diffusione di impieghi precari e saltuari, allungamento degli orari di lavoro, tendenza al ribasso dei salari reali: l'Occidente industrializzato e ricco fa registrare condizioni occupazionali che si pensava fossero superate e non più riproponibili. La crisi della sindacalizzazione e la rarefazione del conflitto sono il risultato palese del disagio e della difficoltà di organizzare risposte politiche capaci di porsi come aggreganti nei confronti di ceti sociali spinti nella marginalità e nella precarietà. Crisi del sindacato, quindi, (anche se con alcune differenziazioni all'interno dei vari paesi) e crisi della civiltà del lavoro. In questo fine-millennio il quadro che emerge [...] è quello di una disfatta storica del "lavoro" e delle sue strutture organizzate. Di un vasto ridimensionamento del suo peso specifico nell'ambito delle società industrialmente avanzate; di un generale arretramento nelle condizioni di vita e di lavoro per fasce maggioritarie di popolazione; di un drastico indebolimento delle sue rappresentanze politiche e sociali (p. 28).
Cosa ha determinato tutto ciò e quali i processi che hanno innescato questa fase dirompente e destrutturante? La prima metà degli anni '70, contrassegnata dalla crisi petrolifera, costituisce una fase di rottura di quel modello che dai primi anni del '900 aveva cominciato a caratterizzare rapporti di lavoro, livelli produttivi e meccanismi accumulativi: il modello fordista. Strutturatosi attorno ad alcune idee forza basate sulla fiducia illimitata nelle potenzialità del mercato e dell'espansione dei consumi, il fordismo segna gran parte del secolo. Sull' illimitata disponibilità di forza-lavoro, illimitata disponibilità di materie prime, illimitata disponibilità di consumo (p. 40), l'organizzazione fordista della produzione cresce e diventa condizionante di dinamiche che si estendono dalla produzione al sociale e al politico. L'intuizione di Ford è che vi è un rapporto diretto fra crescita della produzione, alti profitti (garantiti dalla produzione massificata che consente di abbassare costi e prezzi), salari "relativamente" alti, maggiore ricettività del mercato collegata alle nuove dinamiche salariali.
Il movimento operaio organizzato all'interno del modello fordista ha inverato alcune teorie formulate dai propri padri fondatori: dalla centralità assegnata allo Stato come il mezzo principale dell'azione di emancipazione proletaria e di trasformazione sociale (p. 141), alla fiducia nello sviluppo industriale come fattore di progresso e di occupazione sempre più diffusa, alla funzione assegnata allo stesso conflitto salariale come elemento fondamentale per l'allargamento del mercato (più salario = più consumi).
Ad un'espansione del mercato che sembra illimitata, a metà degli anni '70 si contrappone una sua progressiva contrazione che inizialmente appare momentanea, ma che col passare del tempo assumerà connotazioni strutturali. Il mercato mostra rigidità e condizioni di non ricettività insospettate. Il meccanismo si inceppa e si rompe. Per uscire indenni, senza intaccare i profitti, le imprese cominciano ad innovare profondamente i cicli produttivi riducendo tutto ciò che viene considerato come "spreco" e "sovrappiù". Il bisogno di sopravvivere in un'epoca di crescita lenta (come sostiene l'inventore del Toyota production system ) comporta l'introduzione di un sistema che punta ad una drastica riduzione dei costi, ad un'organizzazione della produzione orientata al massimo risparmio di risorse interne escludendo sistematicamente dall'universo di fabbrica ogni fattore inessenziale e ogni costo che possa apparire superfluo. L'imperativo a cui conformarsi diviene così quello della "produzione snella", del "dimagrimento", dell'eliminazione di quanto possa provocare un aumento dei costi. La terza rivoluzione industriale si caratterizza così per tutta una serie di tagli: nello spazio occupato dall'industria (magazzini, depositi, ecc.) come nell'impiego di forza lavoro. Industria e occupazione non crescono più assieme, come era avvenuto per gran parte del XX secolo, ma la prima continua a crescere contro la seconda: la macchina industriale postfordista "cresce dimagrendo". Accumula ricchezza disperdendo uomini. Aggrega potenziale lavorativo dissolvendo tessuto sociale (p. 51).
Quali le caratteristiche principali del nuovo modello che ormai da 20 anni condiziona il tessuto sociale nelle società avanzate e nei paesi del terzo mondo divenuti sedi e centri di smistamento di cicli produttivi che sfruttano il basso costo della forza lavoro? Schematicamente esse possono essere così definite: a) l'utilizzazione della telematica e la velocizzazione dei mezzi di trasporto scardinano il "vecchio" sistema fordista, e lo sostituiscono con una nuova "logica organizzativa" in cui lo spazio sembra non esistere più ( i diversi segmenti del processo di lavoro [divengono] indipendenti dalla loro localizzazione - dallo spazio fisico di collocazione, dalla "densità" del luogo -, e liberamente dislocabili entro un raggio spaziale pressocché illimitato ) (p. 64); b) l'automazione e l'informatizzazione diffusa delle varie reti produttive determinano un costante controllo del livello delle merci prodotte nelle varie parti del mondo in cui si ramifica la fabbrica postfordista in base alla ricettività e alle esigenze del mercato; c) la verticalizzazione tipica dell'impresa fordista (padroni e manager, tecnici e personale amministrativo, e poi, alla base della piramide, la forza lavoro operaia) viene sostituita da un'organizzazione orizzontale del lavoro, articolato per squadre capaci di seguire tutto il processo lavorativo, composte da organici differenziati, disponibili alla flessibilità, che si fanno carico delle difficoltà e dei problemi creati dal mercato. Da un sistema piramidale, fortemente gerarchizzato, si passa, dunque, ad un sistema che potrebbe apparire più democratico, coinvolgente, meno alienante. Ma, e Marco Revelli lo sottolinea con chiarezza, alla proliferazione di nuclei produttivi più o meno piccoli all'interno delle varie fasi lavorative, si accompagnano processi di forte concentrazione del potere strategico nelle mani di pochi, potentissimi gruppi globalizzati (p. 71). Sempre più grandi e potenti queste concentrazioni industriali agiscono su spazi smisurati, mantenendo all'interno dell'originario nucleo centrale le attività legate alla progettazione, alle ricerche di mercato, all' ideazione , e smistando nelle aree del globo "più convenienti" le fasi di vera e propria lavorazione dei prodotti. Lo sganciamento delle imprese transnazionali da un singolo territorio e il loro allargarsi su spazi diversi hanno due effetti politici immediati. Il primo è che a seconda del luogo in cui localizzeranno i propri investimenti, assunzioni di personale, costruzione di infrastrutture, sfruttamento di risorse, muteranno le sorti del territorio, della sua popolazione, e dei suoi rappresentanti politici (p. 113); il secondo è costituito dall'incrinatura del rapporto fra l'impresa postfordista e lo stato in cui essa si è storicamente radicata e sviluppata. Sfuggendo al controllo di qualsiasi autorità statale nel nuovo spazio globale che si viene affiancando e sovrapponendo al consolidato assetto statale-territoriale, infatti, si generano e agiscono soggetti, poteri, [...] altrettanto globali, smisurati, incontrollati e incontrollabili (p. 111).


La Nike, la multinazionale americana che ha distaccato in Indonesia gran parte della produzione, paga un salario alle donne e ai bambini indonesiani pari a 15 cents. La spesa complessiva annua per salari della Nike per l'intera Indonesia è inferiore ai 20 milioni di dollari che il giocatore di basket Michael Jordan ha ricevuto per pubblicizzare le scarpe - Nike.



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