di Ugo Leone
Oggi la spesa per l'ambiente è essenzialmente una spesa di "riparazione". Una spesa,
cioè, volta a finanziare interventi che servono a mettere qualche pezza, a tamponare
qualche falla dopo una frana, un'alluvione, un terremoto. Si chiamano "spese difensive" e sono sostanzialmente improduttive, perché, nella logica della "politica del rattoppo"
danno un po' di fiato a qualche sinistrato, fanno lavorare qualche impresa, ma non
rimuovono le cause del dissesto o del degrado, comunque del rischio.
D'altra parte l'irregolarità degli interventi, la loro saltuarietà nel tempo e causalità
nello spazio, contribuiscono anche a realizzare una politica dell'ambiente, come
si dice "macchia di leopardo".
Ad esempio, una certezza che si ha è che l'Italia il Mezzogiorno in modo particolare
è una terra a rischio. Ma dove, quando e sotto quali forme il rischio si materializzerà
non è dato sapere, a Sud come a Nord della Penisola. Potrà essere oggi una frana in Campania, domani un'alluvione in Piemonte e Calabria, poi un terremoto in Sicilia
e in Umbra, qualche smottamento in Basilicata . In questa situazione in cui è certo
il che ma non il quando e il dove, l'impresa economica che pure è evidentemente dietro le opere di ricostruzione o riparazione "a valle" dell'evento, non può nemmeno stabilmente
attrezzarsi. Perché l'impresa ha bisogno di certezze prima di fare investimenti.
Ebbene una certezza potrebbe darla una politica dell'ambiente e del territorio basata sulla difesa preventiva piuttosto che sul rattoppo successivo all'evento.
Ciò significa che se si dicesse con chiarezza, per esempio, che lo Stato intende intervenire
con un'opera di ampio respiro per dare una sistemazione definitiva al dissestato
Appennino, ciò vorrebbe dire quanto si intende investire e in quanti anni. Il che
comporterebbe anche la programmazione di una serie di interventi nelle regioni maggiormente
esposte ai rischi del dissesto idrogeologico secondo una scala di priorità. Il che
significherebbe sapere dove e quando si interviene, con quale e quanto personale
sarà necessario intervenire, con quali macchinari per fare quali opere. Laghetti collinari,
rimboschimento, opere di sostegno e rinforzo delle pendici collinari e montane, interventi
di sistemazione idraulica della pianura, delle conche e delle valli eccetera eccetera, richiedono investimenti di capitali, imprese attrezzate ad intervenire,
persone che lavorino. E persone che lavorino in opere pubbliche di evidente utilità
sociale, perché nel riparare rimuovono anche la causa del rischio rendendo sempre
più remoto il suo verificarsi in futuro o, comunque, il suo verificarsi in modo calamitoso.
I fenomeni naturali, infatti, non si eliminano, ma si lemina o si riduce di molto,
la loro potenziale pericolosità. E ciò vale per il dissesto ma anche per la sismicità di tante aree che con interventi economicamente rilevanti e con interessante impatto
per l'industria edile e per l'occupazione, potrebbero/dovrebbero essere rese molto
meno vulnerabili rispetto al rischio sismico. Tanto che potrebbero essere utilmente
estesi ad interventi di questo tipo i provvedimenti di defiscalizzazione assunti per
le opere di risistemazione degli edifici privati approvati dal governo nel 1998.
Né il discorso si esaurisce nelle opere di intervento a tutela dal rischio naturale.
Le opere di ripristino, tutela e salvaguardia dell'ambiente manomesso dagli esseri
umani sono di non minore impegno e richiedono anch'essi investimenti, imprese che
intervengano, gente che lavora.
Una fin troppo trascurata e dimenticata indagine condotta dall'Eni-Isvet all'inizio
degli anni '70 quantificava i costi e i benefici dell'intervento pubblico nel disinquinamento
ambientale. Da allora sono passati trenta anni; la situazione globale è complessivamente peggiorata, ma si sono anche fatti consistenti passi in avanti. Oggi, comunque,
fare calcoli con le cifre prospettate allora non ha senso. Ma è importante conoscere
le conclusioni di quello studio perché sono indicative di una tendenza che è rimasta immutata. Ebbene le conclusioni dicevano che esiste una giustificazione economica
all'intervento da parte della collettività . Ciò perché il costo degli interventi
da realizzare in un quindicennio veniva valutato in 9.000 miliardi mentre i benefici
derivanti dall'eliminazione dell'inquinamento si facevano ammontare in 12.000 miliardi.
In aggiunta, poi, ci sono le opere in cui non si deve toccare niente. Le opere, cioè,
che non comportano né decostruzioni né costruzioni, ma solo azioni di tutela. Sono
quelle rientranti nel grande comparto della protezione della natura, in una concezione
moderna e non "giurassica" della stessa, che si realizza attraverso l'istituzione
di parchi e riserve, oasi e quant'altro consente di tutelare la natura e i suoi rappresentanti
animali e vegetali mettendo ad un tempo in moto un interessante processo economico.
Negli ultimi anni la superficie territoriale protetta per legge si avvia a toccare
la bella cifra del 7% e non è lontanissimo il mitico 10%. Ma basta una legge, per
proteggere la natura e combattere incendi e abusivismo edilizio che sono le piaghe
maggiori dei parchi? Certamente no, se non si riesce a dire alla popolazione più direttamente
coinvolta che i parchi non sono solo una serie di divieti, ma oggi sono sempre più
occasioni di sviluppo economico pulito.
Questo è solo uno degli approcci al problema.
Sottolineare la vitale esigenza di dare ai cittadini un ambiente vivibile ed un territorio
sicuro non significa affermare che la politica di sviluppo del Mezzogiorno si può
esaurire nella realizzazione di opere pubbliche rientranti nel grande quanto poco
esplorato filone degli interventi di politica dell'ambiente. Ma significa sottolineare
l'esistenza di un modo diverso e più produttivo economicamente e socialmente di intendere
la realizzazione di opere pubbliche; il che costituisce anche un modo di dare messaggi sicuri e "orientamenti" alle imprese.
L'impresa, tuttavia, è una realtà molto ampia e variamente diversificata che ha un
obiettivo prioritario: produrre e realizzare profitti.
E' sul produrre cosa e, ancor più, sul produrre cosa nel Mezzogiorno che bisognerebbe
ulteriormente intendersi, anche perché la risposta a questo quesito potrebbe servire
anche ad orientare utilmente la realizzazione di almeno parte delle infrastrutture di cui prima si diceva.
Produrre merci è certamente una risposta, ma non più la risposta.
Dire che è solo una risposta significa prendere atto del fenomeno di progressiva dematerializzazione
dell'economia che almeno da un quindicennio caratterizza i paesi economicamente più
sviluppati e, allo stesso tempo, impone l'esigenza di essere particolarmente precisi nella individuazione delle merci da produrre.
Dire che non è la sola risposta significa ricordare che oltre che merci di possono
produrre anche servizi e che questi servizi, come prima ricordavo, oggi sono soprattutto
quelli per la vita e per la qualità della vita.
Questa constatazione introduce un ulteriore problema: quello dei luoghi in cui si
vive e del modo in cui in essi si vive. I dati sono universalmente noti: si vive
prevalentemente in città soprattutto si vive in città nei paesi del primo mondo
e, quindi, in Italia e nel Mezzogiorno e vi si vive sostanzialmente male o in modo disagevole.
Ciò è vero soprattutto e dovunque per le grandi città per le quali sono richiesti,
previsti e prevedibili interventi di grande portata per il miglioramento della qualità
della vita e, quindi, per la migliore dotazione e distribuzione di infrastrutture
e servizi: nei trasporti, per la rimozione e smaltimento dei rifiuti, per la istruzione
e la cultura, per lo sport e il tempo libero
Di questo argomento si discusse approfonditamente qualche anno fa nella Conferenza
delle Nazioni Unite sulle città (Habitat, Istanbul, giugno 1996) durante la quale
si mise in luce che le grandi città o i grandi agglomerati urbani non sono solo un
condensato di problemi sociali, ambientali, urbanistici, ma anche un insieme di grandi opportunità
per gli investimenti in infrastrutture e servizi. La riflessione veniva fatta soprattutto
per le megacities e con particolare riguardo a quelle asiatiche, quindi per situazioni abbastanza diverse da quella italiana in genere, meridionale in particolare.
Ciò non toglie che tutti i grandi agglomerati urbani, generalmente cresciuti tumultuosamente
e al di fuori di regole e pianificazione dell'uso dello spazio, della fornitura di servizi, e della dotazione di infrastrutture; tutti i grandi agglomerati
urbani, dicevo, hanno bisogno di essere "risistemati" con opere di adeguamento del
rapporto domanda/offerta di servizi.
*Riproduzione parziale della relazione tenuta al Convegno dedicato alla "Questione
meridionale in epoca di globalizzazione" (Città della Scienza, Napoli 3-4 ottobre
2000)