Come uscire da una sconfitta epocale senza rincorrere gli avversari sul loro terreno
di Guido Liguori
Non si può non condividere l'acuto grido di allarme che Giuseppe Cantillo leva in
merito alla situazione della sinistra, alla sua politica, alla sua cultura, insomma
al suo modo d'essere e ai suoi rapporti con il paese. Con poche pennellate egli dipinge
un quadro drammatico, e a ragione: disagio e impoverimento politico, distacco dai problemi
reali, impotenza di fronte ai mali della società, una amministrazione dell'esistente
del tutto subalterna alla sfera dell'economico, una concezione e una pratica della politica sempre più ridotta a gestione del potere, partiti come comitati elettorali
in cui i residui gruppi di militanti sinceri non contano nulla. E, non meno grave,
cecità e\o impotenza davanti agli stravolgimenti dello stesso vissuto individuale,
alla progressiva cancellazione della demarcazione tra tempo di lavoro e di non lavoro (a
mio avviso sintomo sottovalutato di un processo che allarga a dismisura quello che
una volta si era soliti denominare come il "dominio del capitale"). Sono in gran
parte parole di Cantillo. Le uso sia perché non saprei trovarne di migliori, sia per richiamare
fino in fondo la drammaticità della situazione che egli avverte. Un giudizio che
non si può non condividere.
E' vero, Cantillo parla anche di "aspetti molto positivi e innovativi" che sarebbero
presenti nella crisi, momento di contraddizione in cui non tutto è negativo. Forse
non condivido questo ottimismo (della volontà?). Proprio perché la situazione mi
sembra compromessa nel profondo. Non mi riferisco agli sbocchi più vicini, non amo la "sondologia",
ritengo importanti ma fino a un certo punto i segnali della sconfitta (elettorale)
prossima ventura, guardo rassegnato da tempo all'eventualità che il cosiddetto "centro" finisca per fare blocco (tranne pochi "stati maggiori" autoreferenziali) con
la "destra", con la quale condivide valori e antropologia. Si palesa alla fine (se
non si è già palesata) tutta la pochezza della politica ridotta a tattica, tanto
decantata a sinistra negli ultimi anni.
Occorre ripartire dunque dai punti nodali della nostra cultura, da alcune domande
di fondo, su cui la sinistra, a partire da metà anni Ottanta almeno, non si è misurata
esplicitamente, preferendo l'accumulo sincretico prima e l'illusione del "nuovismo"
vuoto quanto forsennato poi. Ad esempio: esistono ancora le classi sociali? O l'onnipresente
riferimento al "cittadino" intende negarne radicalmente l'esistenza? La realtà è
certo più complessa di come la questione ebraica prima e la cultura socialista poi
avevano descritto le cose; nuove contraddizioni si sono sommate alle precedenti. Ma
la contraddizione di classe esiste ancora? Quale posto ha nel nostro discorso?
E poi: quale ruolo assegniamo oggi al pubblico e allo statuale? Veniamo da un secolo
di forte statalismo e di errori ad esso connessi. Ma oggi dobbiamo ritenere, come
fa il pensiero liberale, che tutto il pubblico e lo statuale siano da buttare? O
si tratta di recuperare una concezione del pubblico e dello statuale che li ponga al servizio
della società? In 150 anni di storia la sinistra ha saputo trovare gli strumenti
per far emergere l'interesse collettivo, la solidarietà, l'aiuto al più debole? Non
mi sembra. Cantillo dice, molto giustamente, che la "società civile" non è il meglio della
realtà che abbiamo oggi di fronte, anzi: spesso vuol dire solo mercato, interessi
egoistici, legge della giungla. Ma la sinistra non tematizza questi aspetti di fondo
della realtà, e della propria cultura politica, non chiama alla riflessione su tali questioni
decisive, si adagia sull'andazzo corrente, accetta linguaggi e idee-forza del pensiero
liberale, senza a volte neanche sospettare che si tratta di una tradizione di pensiero da cui c'è ancora da imparare, ma che è costitutivamente "altra" rispetto
alla nostra storia, ai nostri valori, al nostro modo d'essere.
Discorsi analoghi si potrebbero fare per quel che concerne i sistemi elettorali, il
personale politico e i gruppi dirigenti dei partiti, ecc. Leaderismo e telecrazia
sono il terreno in cui ormai si è accettato di giocare? Allora la sconfitta è inevitabile, e qualche bella presenza regala solo pochi anni di dilazione della sconfitta, senza
scalfire in profondità rapporti di forza e culture. Anzi, su questo piano forse si
peggiorano le cose, accentuando passività e delega e non partecipazione.
Questi sono - a mio avviso - i problemi su cui richiamare l'attenzione, i grandi problemi
di fondo, per ritrovare una identità che non abbiamo più. La nostra è stata una sconfitta
culturale, a confronto della quale quella elettorale (passata e futura) non è decisiva: la vittoria politica - in questo contesto - è in gran parte un'illusione.
Siamo stati sconfitti, su scala mondiale, nella lotta per l'egemonia, che ha un contenuto
economico, ma anche rilevanti aspetti ideali ed etici. Siamo stati fino ad oggi incapaci di reagire sull'uno e sull'altro piano. Se non si parte da questa consapevolezza,
non c'è speranza.
In questo senso il contributo di Cantillo è prezioso. E con lui vorremmo anche saper
trovare un po' di ottimismo (della volontà). Perché il pessimismo dell'intelligenza
appare oggi davvero fondato.