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Tratto da:
Giuseppe Maccaroni,
Federalismo e diritti umani della socialdemocrazia classica,

Jonia Editrice, Cosenza, 1998


A parere di Bernstein due sono i pericoli che possono minare lo sviluppo della democrazia: le strutture centralistiche dello Stato moderno e la burocrazia. La democrazia per evitare tali pericoli deve essere costruita su una forma ampiamente articolata di autogoverno, ed è su questo terreno che le posizioni espresse da Marx ed Engels in La guerra civile in Francia si incontrano con le tesi federaliste di Proudhon. La convergenza è colta da Bernstein nel comune rifiuto di una organizzazione dello Stato che si collochi come un "ente indipendente e superiore della nazione" (Marx), ovvero come "una entità distinta e superiore" (Proudhon) rispetto alle assemblee elettive locali. In entrambi Bernstein scorge una serie di indicazioni politiche che accennano a quella che è la tendenza generale della società moderna, ossia "un costante aumento dei compiti delle municipalità e una costante estensione delle libertà comunale, e che il comune diventi una leva sempre più importante della emancipazione sociale".
Bernstein era consapevole che accostare gli antagonisti Marx e Proudhon rappresentava un motivo di scandalo per gli ambienti socialisti tedeschi, e l'accostamento non deponeva certo a favore di un accrescimento del consenso verso i suoi propositi di revisione dei 'presupposti' scientifici del socialismo. In effetti, Marx ed Engels nello scritto cui fa riferimento Bernstein, destinato a chiose minuziose a partire da Stato e rivoluzione di Lenin, aggiornavano il programma rivoluzionario del Manifesto e, sulla base dell'esperienza della Comune parigina, indicavano per la classe operaia la necessità di non impossessarsi semplicemente della macchina statale e metterla in moto per i propri fini, ma di annientare il potere statale sviluppatosi come una escrescenza parassitaria sul corpo della nazione, e restituirne le funzioni alla società e al popolo costituito in comuni.
In altre parole, il segreto istituzionale della Comune parigina per la 'costituzione comunale' federalista che restituiva al corpo sociale tutte le forze fino ad allora divorate dall'escrescenza parassitaria costituita dallo Stato. In modo non dissimile, nella sua critica allo Stato nazionale moderno, Proudhon non si limitava a rifiutare qualsiasi forma di governo o potere centrale distinto e separato dall'assemblea dei delegati, ma individuava nella libertà municipale (autonomia dei comuni e delle province) lo strumento politico più adatto all'emancipazione della classe operaia. Non a torto Bernstein poteva dunque scrivere che, nonostante tutti gli altri dissensi, tra Marx e il 'piccolo borghese' Proudhon i loro ragionamenti erano alquanto vicini nel cogliere questa tendenza generale dello Stato moderno verso una sua disarticolazione e trasformazione in organismi democratici di base.
Questo non vuol dire che per Bernstein fosse auspicabile un superamento della forma tradizionale della rappresentanza nazionale, e che si potesse fare a meno della funzione di controllo esercitata dalle amministrazioni centrali. "La storia moderna, egli osservava, ha visto maturare troppe istituzioni, il cui ambito si è sottratto al controllo delle municipalità e persino delle regioni e delle province, perché si possa fare a meno, prima della loro completa riorganizzazione, del controllo delle amministrazioni centrali. Né ritengo poi che l'ideale sia l'assoluta sovranità dei comuni. Il comune è parte integrante della nazione ed ha altrettanti doveri verso di essa che diritti su di essa. [...] In un'epoca di transizione dunque appare indispensabile una rappresentanza nella quale l'interesse nazionale e non quello provinciale o locale sia in primo piano, e quindi sia il primo dovere dei rappresentanti. Ma accanto ad essa acquisteranno sempre più importanza le altre assemblee e rappresentanze, e di conseguenza, rivoluzione e no, si ridurranno sempre più le funzioni delle rappresentanze centrali e, con esse, i pericoli che queste rappresentanze o autorità assumono per la democrazia".
Anche se non veniva mai nominata esplicitamente, non è difficile intravedere in queste considerazioni di Bernstein una presa di distanza dalla teoria engelsiana dell'estinzione dello Stato. In generale, per Bernstein lo Stato rappresentava una realtà non da spezzare o abolire, bensì da riformare con una progressiva estensione di istituti di autogoverno e di autoamministrazione. "Il feudalesimo, egli riconosceva, con le sue istituzioni rigide e immobili, doveva essere distrutto quasi dappertutto con la violenza. Ma le istituzioni liberali della società moderna si distinguono da quelle proprio per la loro duttilità, per la loro capacità di trasformarsi e di svilupparsi. Non occorre quindi distruggerle, occorre soltanto svilupparle ulteriormente".



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