I "principi" comunitari e cosmopolitici del federalismo
di Giuseppe Maccaroni
La strumentalizzazione anti-meridionalistica a cui il termine "federalismo" e' stato e viene sottoposto nelle vicende del dibattito politico italiano, sembra aver lasciato lo spazio ad un valutazione piu' serena e attenta dei suoi principi costitutivi e ispiratori. Del resto, solo un atteggiamento miope e preconcetto puo' negare l'appartenenza dei principi "comunitari" e "cosmopolitici" del federalismo alla tradizione del pensiero democratico e socialista, e ridurlo ad un'arma ideologica per la difesa di interessi corporativi e a strumento di divisione e lacerazione. Certo, l'idea federalista e' in primo luogo una configurazione del potere statuale diversa e alternativa rispetto al centralismo degli Stati nazionali, ma se ne smarrisce l'idealita' piu' profonda se questa "forma-Stato" viene scissa dalla sottesa concezione del potere. Una concezione che mira, da un lato, a realizzare il sogno millenario dell'umanita' di una "pace perpetua" eliminando l'anarchia internazionale, dall'altro, a rendere piu' umano il "volto" del potere avvicinandolo a quella sua fonte originaria che e' la "comunita'" locale.
Fraintende completamente il federalismo chi non riconosce che per esso la "cellula" primaria del potere e' la comunita' locale come organismo territoriale a "misura d'uomo". Solo la comunita' locale puo' rappresentare quell'entita' autonoma capace di fornire le fondamenta politiche ed economiche di una nuova organizzazione del potere, che sia capace di superare il falso e fuorviante dilemma tra centralismo e decentramento, in direzione di uno Stato federale delle comunita'. Innanzitutto, perche' la comunita' locale rispetto all'individualismo e all'anonimia predominanti nelle nostre societa', favorisce i contatti sociali e valorizza quei legami di solidarieta' che hanno origine dalla stessa storia, da comuni modi di sentire e dalle stesse tradizioni di uomini che vivono e producono nell'ambito di un determinato territorio.
Secondariamente perche' riassorbire e far lievitare il "potere" dal basso, dal seno delle comunita' territoriali locali, significa recidire alla base quei meccanismi responsabili della lacerazione tra bourgeois e citoyen e ricomporre comunita' politica e societa' civile. Del resto, se e' vero che i partiti politici hanno obliato i loro ideali e perso il loro legame con la societa', allora essi potranno mantenere una funzione democratica se saranno capaci di trasformarsi in una federazione di associazioni autonome aventi finalita' ben definite legati alle comunita' locali.
A partire dal concetto di "comunita'" si puo' affrontare anche lo spinoso problema dei diritti delle minoranze e del diritto di secessione. Quest'ultimo tema, sollevato periodicamente nell'arena politica nostrana con toni demagogici e propagandistici, molto spesso viene contrabbandato come un diritto che per analogia puo' essere fatto discendere dai diritti naturali sanciti dalla tradizione liberal-giusnaturalistica o essere assimilato al principio di autodeterminazione dei popoli alla base della Dichiarazione sull'indipendenza dei popoli coloniali sancito dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel lontano 1960.
Ora, per quanto riguardo la prima ipotesi solo una interpretazione fuorviante e pretestuosa puo' assimilare un presunto diritto alla secessione al diritto di resistenza affermato dalla tradizione liberale e giusnaturalistica. Nel Secondo trattato sul governo civile J. Locke attribuisce al diritto di resistenza due significati ben precisi che non vanno assolutamente confusi. In primo luogo, il diritto alla resistenza e' inteso come opposizione del singolo individuo ad atti illegali o ad un uso illegittimo della forza da parte degli organi dello Stato. In questo senso tale diritto si concreta nell'uso di uno strumento legale nell'ambito di una legislazione capace di limitare i poteri dell'esecutivo con la separazione dei poteri. In secondo luogo, tale diritto si configura come una rottura rivoluzionaria solo e nei casi in cui si e' in presenza di una dissoluzione del potere. In questi casi di vuoto di potere, che legittima l' "appello al cielo" del popolo (come insieme di individui), si ha la dissoluzione dello Stato ma non della societa', la quale in quanto base naturale dello Stato preesiste e sopravvive ad esso. Il diritto alla resistenza come rottura rivoluzionaria si configura cosi' come un ripristino dei diritti naturali individuali violati e ha come fine la ricostituzione di un legislativo che li garantisca e protegga.
Ma se e' teoricamente illegittimo confondere il diritto alla secessione con quello di resistenza, puo' forse essere assimilato al principio di autodeterminazione dei popoli? Certo, sarebbe storicamente miope non riconoscere la crisi irreversibile in cui e' ormai precipitato lo Stato-nazione e l'esigenza di una diversa configurazione statuale inseparabile da una nuova idea della politica. E' pero' bisogna ammettere anche la funzione bifronte che la figura dello Stato-nazione, con il suo dogma della sovranita', ha storicamente svolto. Lo Stato nazione infatti e' stato sia la forma politica attraverso e contro cui si e' compiuto il processo di positivizzazione dei diritti politico-civili fondamentali (Stato di diritto), sia l'orizzonte in cui si e' sviluppata (e impoverita) nel nostro secolo l'idea di autodeterminazione dei popoli.
Il diritto di autodeterminazione cosi' come e' stato applicato (un popolo, uno Stato), si e' ridotto al puro e semplice diritto di costitursi in Stati-nazioni indipendenti e come tale si e' rivelato insufficiente a liberare ed emancipare realmente i cittadini del pianeta. Non solo ma nella sua forma burocratica e accentrata (lo Stato dei "prefetti") accanto alla sua innegabile funzione progressiva ha innescato dinamiche che hanno finito per cancellare identita' collettive, imporre vincoli non sentiti, schiacciare e opprimere comunita' e culture locali. Con la rottura delle identita' collettive legate alle comunitˆ locali, il nucleo assiologico fondante il processo storico di aggregazione statuale e' stato assolto, bene e male, dall'idea di nazione, cioe' dal senso di appartenenza ad una "individualita'" storica nazionale. Male quando e' prevalsa una versione "naturalistica" della nazione (sangue e terra), bene invece quando si sono affermati i valori "libertari" e "solidaristici" racchiusi nella sua idea. Regressiva e minacciosa la prima perche' avvinghiata al mito della sovranita'; democratica e cosmopolitica la seconda perche' l'appartenenza alla propria comunita' nazionale rinviava ad una piu' vasta comunita' comprendente l'intera umanita'.
Tutto cio' non significa disconoscere i drammi che ha provocato la versione storicamente vincente dello Stato-nazione o mettere tra parentesi la sua crisi irreversibile sul piano economico (la cornice dello Stato-nazione non risponde piu' alle esigenze dei processi globali di interdipendenza economica), sociale (lo "Stato sociale" va ormai ridisegnato e proiettato al di fuori dei confini nazionali), politico (la "sovranita'" subisce sempre piu' una continua erosione). Ed e' all'interno di tale crisi che bisogna affrontare il problema delle minoranze che non trovera' soluzione con anacronistici meccanismi di frammentazione, bensi in virtu' di una nuova progettualita' dell'idea politica capace di salvaguardare "unita'" e "pluralismo", "interdipendenza" e "autonomia".