In occasione delle celebrazioni di Reggio Calabria per il centesimo anniversario del critico calabrese
Già c'è capitato di segnalare, nella ricca messe degli studi storico-letterari di Umberto Bosco, la costante tensione, certo non sua esclusiva ma in lui particolarmente evidente, a riassumere i risultati della sua indagine in una formula di grande suggestione e immediatezza, di quelle che poi sarebbero passate in proverbio, come la "perplessità" di Petrarca o l'"intelligenza" di Boccaccio. Ed è notevole che, solo in due casi, appunto Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, del 1957, e Dante vicino, del 1966, la formula fosse annunciata fin dal titolo del suo lavoro.
Di tale tensione, abbiamo creduto di rintracciare l'impulso originario, mentre imparavamo da Bosco stesso che l'incontro decisivo di Albino Pierro con la sua incomparabile lingua poetica, anziché discendere dalle motivazioni più ovvie, il folclore il populismo l'arcadia dialettale, sarebbe stato il risultato di un tentativo di conciliare finalmente natura e cultura, ambientando la poesia nel contesto che a lui era più familiare e così quasi restituendola a se stessa, ai puri suoni che ne aspettavano, non avevano dovuto fare altro che aspettarne, da sempre il compimento. Per citare le parole del critico, la conversione di Pierro al tursitano avrebbe risposto a "un bisogno di estrema essenzialità e concretezza che la lingua non sempre può dargli". Infatti a "un sentimento che più intimo non potrebbe essere" - Bosco lo accosta a quello leopardiano - meno di tutto si può negare la sua fatalità, quella "rassegnazione che schiaccia" sotto il peso di una appartenenza, a una storia e a una cultura, necessaria in ogni suo dettaglio e neanche divenuta natura, ma come la natura contrapposta alla cultura e alla storia ufficiali e convenzionali.
Analogamente, lo ha mostrato mirabilmente l'interprete di Dante, soprattutto il commentatore militante, anche il critico deve ambientare le sue letture, per sé e per i pochi o molti ai quali si rivolge, e, non potendo fare riferimento a un contesto comune, o almeno non fino a quel punto, una medesima familiarità cerca di stabilire con le opere e dentro le opere e con gli autori e dentro gli autori, come appare specialmente quando le une e gli altri riesce a rubricare sotto un'insegna immediatamente evidente e persuasiva, se non visibile, che non si sostituisce alla viva esperienza della testualità, ma la corona o, più frequentemente, la indirizza in modo ugualmente euforizzante, perché promette che, per un certo tratto, ne serberà l'essenziale.
Gli studi leopardiani di Bosco illustrano in modo esemplare il nostro asserto. Uno dei più diretti interessati, Walter Binni, comprese da sùbito che essi rompevano a loro volta con la superata tradizione critica che aveva privilegiato la componente idillica dei Canti, ma non ritenne di dover precisare che non portavano nemmeno acqua alla lettura in chiave progressiva, che poi sarebbe diventata protestataria e senz'altro socialista e che intanto avevano varato Cesare Luporini e lo stesso Binni, più che il Leopardi delle Canzoni rivalutando quello dell'ultima stagione, del ciclo di Aspasia e della Ginestra. A dissipare ogni incertezza, sarebbe invece bastato il titolo del libretto in questione, dove una contrapposizione che riguardava le strategie e la poetica, o addirittura i "generi" della poesia, veniva ricondotta a atteggiamenti e stati psicologici, variabili per definizione e compatibili, e con ciò stesso era sottratta a ogni schematizzazione. Mentre, in polemica con la pregiudiziale crociane e direttamente a correzione di Bigi, Bosco escludeva che il Leopardi "più alto", con lui pure individuato "dove il tono della compassione è prevalente e più puro", potesse essere assegnato a "un periodo [...] definito", alle più recenti tentazioni di riscatto politico, rispondeva con il recupero della nozione concorrenziale, applicata prima a Alfieri e poi ai romantici, di titanismo. Non mancava certo il critico calabrese di sottolineare le differenze del caso (che era quello di "una battaglia alla quale può arridere una vittoria", anche se così si riproponeva implicitamente la scansione cronologica appena sfumata), ma parlare di titanismo gli consentiva di cogliere, senza liquidarlo nei prodromi, il carattere dialettico del rapporto tra un'incontenibile ispirazione e aspirazione eroica - da lui felicemente ricondotte al primato dell'"operare", di necessità sottratte al "campo dell'azione" e poi stigmatizzate come un "impennarsi di fronte alla realtà" - e il complemento di sensibilità e intimità che rendeva verosimile la furiosa reazione "contro la codardia", nonché meno astrattamente programmatico e velleitario "l'esempio d'un solo".
Ci voleva insomma una cocente percezione della propria personale sofferenza e del suo orizzonte struggentemente limitato, per abbracciare con tanta passione la causa (perdente, persino più che non credesse il poeta) dell'ideale e dei valori, cioè della "virtù": "Immenso / tra fortuna e valor dissidio pose / il corrotto costume". Bosco, mantenendosi dentro un diverso quadro di riferimento, lo dice naturalmente a suo modo: "L'essersi ridestato all'amore [...] dà al Leopardi la sensazione della propria singolarità, dell'eccezionalità del suo sentire, e, correlativamente, quella della meschinità del sentimento comune". In ogni caso, questa percezione va oltre il "pianto", acquista uno spessore oggettivo e diventa "pietà" e "compassione", in quanto si condensa nelle persone, nelle cose, nelle circostanze (restringendo il campo, Bosco dice: "in una determinata figura e, più, in una determinata vicenda di morte"), che la commozione del poeta celebra in un ininterrotto epicedio della bellezza e della giovinezza e della sensibile consistenza che le connotano e le rendono suscettibili di poesia, cioè di essere trattate per quello che sono e forse sempre furono: potenzialità inespresse ("e non pur vera e salda / ma imaginata ancor, di te si scalda"). Si vedano le osservazioni, del tutto condivisibili, sulla Virginia di Nelle nozze della sorella Paolina, che "la tenerezza" giunge a "trasformare [...] in una Silvia", grazie all'"urto di quel rozzo acciaio nel petto bianchissimo".
Se la frattura, che andrebbe forse solo ripartita diversamente tra biografia e finzione, o, se si preferisce, tra diario e libro, è fedelmente, ma con originale finezza, riportata all'amore e ridimensionata al tempo stesso, la continuità è spiegata in termini di stile. L'attenzione ai valori linguistici suggerisce a Bosco che soltanto "nella fermezza e lucidità dello stile" si potesse senza ambiguità comprovare e "riflettere un fermo e lucido coraggio". E che fosse il coraggio stilistico a far da ponte - noi saremmo ancora più cauti di lui nell'uso della cronologia - tra il "pianto" e "lo sdegno e il disprezzo degli altri", cioè tra gli inconciliabili luoghi deputati di una compassione che è innanzitutto considerazione accorata del proprio stato, filtrata appunto attraverso una "beltà" capace di anticipare e di imporre quasi fermezza, lucidità e coraggio allo stile, e del titanismo, sia pure colto nella "definitiva forma" della "fiera compiacenza", dell'"orgoglio di essere solo ad avere il coraggio di affrontare il vero", dell'"ebrezza di dolore".
Bosco però non si accontenta di sfiorare la rivelazione sulla reale natura della pietà, non necessariamente strumentale e tuttavia inseparabile dal desiderio, dall'ammirazione e da un intenerimento intellettuale (altrettanto contraddittorio e vero del lutto inspiegabile per il duro materialismo leopardiano e imprescindibile per la poesia corrispondente). Si rende conto che "la radice dell'idillio leopardiano è in quel "perpetuo canto" che non è solo di Silvia" e, anziché bilanciare questa consapevolezza con il dato apparentemente contrastante che "al centro del suo mondo c'è lui stesso", Leopardi, la usa per capire da par suo, nella maniera ellittica che noi abbiamo ellitticamente ricordato in apertura di questo breve intervento, il senso del convincimento tutto leopardiano che "la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù". Oltre al titanismo e alla pietà regolarmente denunciati dal titolo, il saggio di Bosco contempla una terza categoria o insegna o sigla riassuntiva, quella della "umana compagnia", da non intendere come una mano tesa all'interpretazione solidaristica dell'ultimo Leopardi di Binni o di Luporini, ma nel senso proposto dal critico stesso, quando scrive: "Vorrei richiamare l'attenzione su quel verso, "con chi passato avrà molt'anni insieme", che è a mio parere essenziale per penetrare sino in fondo all'anima del Leopardi". Come non essere d'accordo? L'"umana compagnia" è la formula, non a caso taciuta nel titolo, alla quale Bosco consegna la sua interpretazione leopardiana. Essa affida alla nostra memoria, perché la conserviamo e continuiamo a esercitare le nostre risorse su di essa, la fondamentale indicazione di un radicamento della poesia di Leopardi dentro il medesimo mondo, di volta in volta intollerabile e stupendo, e comunque tragicamente casuale, "posto a caso" e perciò stesso atroce e "dolcissimo", dal quale egli, creandone uno ulteriore o ricreandosi proprio quello nella fantasia, cerca di liberarsi. Anche in questo mondo, le parole rincorrono i suoni come la solitudine quintessenzia la gioventù e proiettano verso il futuro di una solidarietà che duole circoscrivere nell'àmbito della letteratura i "molt'anni" di una frequentazione amorevolissima e un radicamento che era stato cercato e trovato, esso sì, tutto dalla parte della letteratura.
Ci lusinghiamo di credere che a Bosco non sarebbe dispiaciuto che qualcuno attribuisse al suo lavoro critico qualcosa di simile all'eterna vece crociana di intuizione e espressione.*
*È il testo dell'intervento tenuto da chi scrive alle celebrazioni di Reggio Calabria per il centesimo anniversario della nascita di Umberto Bosco.