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Manca una politica mediterranea ben definita

Conversazione con Predrag Matvejevic

di Michelangelo Cimino



Sono sette anni che me ne sono andato dalla ex Jugoslavia, schierandomi con le vittime. Con le vittime croate a Vukovar. Con le vittime bosniache quando erano attaccate dai serbi e poi dai croati. E anche con i serbi esiliati. Credo che un intellettuale debba schierarsi con le vittime. Non importa di quale religione e nazionalità siano. Per me la distinzione è fra vittime e boia .
Predrag Matvejevic, intellettuale cosmopolita, professore all'Università di Zagabria, alla Sorbona di Parigi, e dal 1994 nominato ordinario di Slavistica a La Sapienza di Roma, "per chiara fama", autore di libri tradotti in diciassette lingue, racconta dell'esperienza del fuoriuscito in Fra asilo ed esilio, appena uscito per i tipi di Meltemi. Un libro di riflessioni sulla situazione dell'esiliato, che parte dalla vicenda paterna - un russo, fuoriuscito per motivi politici - e si inoltra alla ricerca degli elementi comuni alla condizione in cui vivono i senza patria.

Parliamo di Mediterraneo. Il dialogo fra la sponda meridionale e quella settentrionale appare in via di ripresa. Nella frontiera del Mare Interno, per usare una sua espressione, inizia ad aprirsi qualche varco. Il miglioramento dei rapporti italo-libici, le missioni diplomatiche in Algeria, sono segnali d'avvio di un progetto di integrazione nell'Europa del dopo Maastricht, di un dialogo intermediterraneo o vanno in direzione di nuove e più subdole politiche egemoniche?
Desidererei che fossero un passo per l'integrazione europea. Osservando lo spazio mediterraneo, ho constatato che abbiamo due figure di frontiera. La prima è quella fra l'Europa continentale e la sponda euro-mediterranea. Il Sud è sempre più spaccato. Le decisioni essenziali che lo riguardano vengono prese sul Continente, con una griglia di lettura continentale. E, dunque, il Mediterraneo europeo vive molte frustrazioni. Si fa l'Europa senza la culla dell'Europa.
La seconda figura di frontiera è quella fra la sponda Nord e quella Sud. Da una parte la sponda Settentrionale non è capace di stabilire da sola rapporti che possano inglobare l'intero Mediterraneo. Dall'altra, la sponda meridionale presenta problemi gravissimi, cosicché la politica mediterranea o la mediterraneità era vista fino a qualche tempo fa come un tentativo di imporre un nuovo colonialismo. E dunque, ci si chiudeva anche da questa parte, col risultato che il Mediterraneo rimaneva un semplice stretto di mare fra i Continenti.

Ora, invece, spuntano delle novità...?
Ci sono dei cambiamenti. Un momento importante è stato sicuramente quello della Conferenza di Barcellona, che pur non avendo risolto i problemi li ha posti. Comunque sia, alcuni passi sono stati fatti e per ciò che riguarda l'Italia posso dire che essa si è conquistata una certa credibilità. La sua storia è tale che il Mediterraneo sarebbe pronto ad accettarla come interlocutore più che qualsiasi altro paese dell'Unione Europea. Abbiamo visto in Albania che gli ex occupanti non erano percepiti come tali. Durante i miei numerosi peripli nei paesi arabi, in Tunisia per esempio, mi sono reso conto che lo sguardo sull'Italia è molto positivo. Ovunque, in Tunisia, si parla la lingua italiana non meno della francese, tradizionalmente impiantata nei paesi maghrebini.
Anche questo nuovo rapporto con la Libia, potrebbe dare all'Italia un ruolo di protagonista in Europa.
Ma io vedo due i fattori negativi. Il primo. Dei quattro paesi dell'Unione Europea che si affacciano sul Mediterraneo nessuno ha una politica mediterranea ben definita. E mai è stata concertata fra loro una politica di opposizione alla griglia di lettura continentale di cui parlavo prima. Il secondo. Per quanto riguarda l'Italia stessa, devo dire che questo paese che dispone dei mezzi e delle competenze necessarie, non ha gli strumenti per seguire in modo analitico, profondo i passi verso una politica mediterranea. Non ci sono istituzioni, insegnamenti che possano aiutare la politica ad evitare le improvvisazioni.

Il Sud, luogo d'incroci di razze, lingue, etnie, religioni, ad un certo punto della sua storia inizia come a disfarsi di questa sua identità complessa. La tolleranza si tramuta in esclusione; le aperture culturali in chiusure tribali... Cosa muta?
Il Sud possiede una fortissima identità dell'essere e una scarsissima identità del fare. Una lingua, abitudini, comportamenti, visioni, fatti, gesti di grandissima forza interiore e di grandissima creatività. Quando si guarda il panorama della letteratura europea e italiana, non si può fare a meno di notare la forte creatività meridionale. A questa identità dell'essere non corrisponde, però, un'adeguata identità del fare. Si è formata una frattura, e noi, gente del Sud (tale mi sento), la portiamo cone una cicatrice, una ferita, un'offesa, un'umiliazione.
Il Sud deve riflettere anche su se stesso: sull'origine dei propri difetti, sulle corruzioni, le deviazioni varie, sul non agire a tempo e col tempo. Non si può riportare tutto alla misura del Nord che, fra l'altro, produce molte di queste deviazioni.
Ho appena scritto la prefazione per l'edizione francese del libro di Franco Cassano (Il pensiero meridiano, Laterza; ndr) e vi ho trovato un tentativo di riscossa che giudico molto positivo. Il Sud con le sue forze intellettuali, morali, di tradizione, di cultura, deve mettersi a riflettere su se stesso e ritrovare questo pensiero meridiano. Nel testo parlo di un incontro con Raffaele La Capria durante il quale lui mi diceva che il Nord è più preparato, più coerente, ci distrugge. Il suo peso è enorme. Mentre noi non riusciamo a coordinarci. Credo che questo tentativo espresso nel libro di Cassano, e forse anche nel mio Breviario Mediterraneo (uscito da Garzanti nel 1991; ndr), costituisca un passo in avanti. Dobbiamo trovare, insieme a tutte le forze presenti nel Sud, metodi, modi, una strategia per opporci a questa emarginazione, che viene dal Nord e che purtroppo mi sembra essere appoggiata dall'Europa.

I nazionalismi etnici, religiosi, politici, linguistici, esplosi nel '91 nella ex Jugoslavia, presentano pochi elementi comuni con le odierne rivendicazioni nazionaliste. Queste ultime (si pensi alla nazione padana) non si spiegano se non guardando ai processi di globalizzazione dell'economia. Dietro le comparsate folkloristiche della Lega, fanno capolino le richieste di unità economiche territoriali. Le aree ricche e competitive da una parte, quelle non competitive dall'altra - abbandonate al loro destino. La vicenda jugoslava fa storia a sè?
Credo di sì. Sono presenti, naturalmente, ragioni di sviluppo economico nelle rivendicazioni nazionalistiche. Poi ci sono le mitologie, molto forti e profonde, che vanno al di là e talvolta si oppongono alle esigenze vere. Per quanto riguarda lo spazio jugoslavo, esisteva una straordinaria interdipendenza economica fra le due repubbliche più sviluppate: Croazia e Slovenia. Esse avevano un mercato, direi quasi coloniale, nelle parti sottosviluppate della Bosnia, del Kosovo, della Macedonia. Non potevano, e non possono, esportare nei paesi più sviluppati: in Italia e in Germania non si compravano frigoriferi o televisori sloveni e croati, di Zagabria o di Dubiana. Tutto si esportava lì. C'era un interesse economico straordinario.
Comunque, è prevalsa l'ideologia, la mitologia. E' prevalso questo nazionalismo fortissimo che esiste in alcune zone. E poi, non dimentichiamo una cosa: che c'è uno spazio europeo spaccato dallo scisma cristiano del 1054. Serbi e montenegrini sono ortodossi come greci e russi; croati e sloveni sono cattolici. In questa frattura si è poi inserita una componente islamica. Qui, dunque, troviamo tutte le componenti religiose del Mediterraneo.
Il separatismo, è un fenomeno retrogrado - quasi ogni separatismo è vicino a forme di fascismo - ed è contrario alle tendenze della civiltà moderna ad unirsi, avvicinarsi, facendo uso dei vari mezzi che lo permettono. Nella tipologia dei separatismi, va poi tenuto conto delle ideologie. Per quanto riguarda queste ultime, un fenomeno che io ho osservato è il seguente: come nei fascismi europei di questo secolo, la cultura nazionale diventa ideologia della nazione e nutre movimenti ideologici, fino al punto in cui giungono ad una espressione politica e a rivendicare separazioni.



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