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Dal lavoro per "vocazione" al "lavoro flessibile"

Come il capitalismo "flessibile" ha reso possibile la realizzazione dell'utopia marxista e socialista, del superamento della divisione sociale del lavoro. Ma mutandone segno e finalità

di Antimo Negri



La letteratura critica, in particolare sociologica ed economica, sul mondo della produzione e del lavoro (dell'organizzazione dell'una e dell'altro) nell'epocale e rivoluzionario passaggio dalla civiltà del lavoro diviso, o del posto di lavoro rigidamente fisso, alla civiltà di quello che oggi si usa dire "lavoro flessibile", o del posto di lavoro precario e mutevole, è ormai sterminata, di giorno in giorno anche in maniera smodata crescente.
Il passaggio in questione si può caratterizzare anche come quello dagli Stati nazionali alla globalizzazione; o, anche, come quello dall'old economy alla new economy. Ma, con maggiore inclinazione a problematizzarlo. Soprattutto lo storico del concetto di lavoro, più accorto nell'usare la categoria del cangiamento temporale della teoria e della prassi, può considerarlo come il passaggio, irreversibile o reversibile che sia, dalla cultura, essenzialmente cristiana, dell'homo vocatus alla cultura, che si potrebbe definire post-cristiana, dell'homo flexibilis. Almeno se, dove c'è vocatio nel senso paolino e poi nel senso calvinista, o calling o Beruf, (chiamata) professione nel senso weberiano, non può esserci, appunto, "flessibilità", in quanto sviamento da un'attitudine naturale ad esercitare un mestiere o a svolgere un'attività professionale cui si debba ubbidire, volendo servirci di un'espressione di Hegel, come ad un destino.
La cultura cristiana della vocatio è, senza alcun dubbio, quella che si coestende, storicamente, con una civiltà industriale capitalisticamente assestata, bisognosa, per soddisfare nella maniera più razionale le esigenze della produzione più efficiente e competitiva e dell'organizzazione più "scientifica" del lavoro (sì, si può pensare a Taylor e a Ford), di uomini addetti, rassegnatamente tali, ad un lavoro diviso. I primi capitoli della smithiana Ricchezza delle nazioni (1776), nei quali si descrive la divisione del lavoro sociale come il pilastro della produzione manifatturiera cui serva un uomo che non evada dal ruolo lavorativo determinatissimo che gli si assegna, fosse anche quello dello specialista nella fabbricazione della diciottesima parte di uno spillo, trovano i preliminari dottrinali nella calviniana Institutio religionis christianae (1536), in cui, proprio in nome della vocatio, si esorta l'uomo a non abbandonarsi ad una desultoria levitas, cioè ad una "leggerezza saltellante" che lo faccia passare ludicamente da un'attività all'altra.
E' una circostanza, questa, che merita di essere vagliata criticamente, in un momento storico come il nostro, in cui, con le tecnologie più avanzate, soprattutto quelle informatiche, il capitalismo, uscito vincitore dal conflitto con il comunismo che ha caratterizzato una parte del nostro "secolo breve", non ha più bisogno dell'homo vocatus o, più precisamente, di un uomo che si vuole, anche in forma di residui ideologici che affondano le radici nell'antichità classica (la "natura che non fa salti" è un motto che sanziona l'antica divisione classistica tra padroni e servi, cara anche a Nietzsche) di un'attività parziale e anzi parzialissima, fuori del quale sarebbe di grave pregiudizio per le sorti di qualsiasi impresa. Sì, l'epoca del taylorismo e del fordismo, l'ultima grande appendice della cultura dell' homo vocatus o del lavoratore diviso, imprigionato in un ruolo lavorativo ripetitivo ed ottundente (lo ammetteva lo stesso Smith, ma non ne voleva un altro Ford la cui "catena di montaggio" è una significativa metafora), è finita. E l'organizzazione capitalistica della produzione e del lavoro ha sostituito, via via sempre di più, la figura del "lavoratore flessibile" alla figura del "lavoratore chiamato".
Resta, intanto, sul tappeto la domanda che, nel 1952, si poneva il sociologo francese G. Friedmann: Où va le travail humain? Ma è una domanda questa, alla quale, all'inizio del 2000, non si può dare la stessa risposta che, anche con passione umanistica, le dava Friedmann. L'organizzazione capitalistica della produzione e del lavoro sembra aver reso possibile, per una sorta di ironia della storia, la realizzazione di quella che, nelle teorie del socialismo più estremistico, appariva come una irrealizzabile utopia: la fine della divisione del lavoro sociale, propria della cultura della vocatio. O, in una parola, ha reso possibile la realizzazione dell' homo flexibilis, cioè di un lavoratore non più relegato in un ruolo fisso, ma capace di svolgere una "poliattività" (il termine è, significativamente, platonico), di cambiare più volte mestiere o professione nella vita, di attendere a molteplici attività nell'arco di una stessa giornata. E non era questo il sogno (accarezzato anche da Marx non privo, anche nell'elaborazione più scientifica del suo socialismo, di umori utopici) del socialista utopista Fourier? Non bisognava, secondo Calvino, abbandonarsi alla desultoria levitas? Ma Fourier esalta, tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, la passion papillonnante, la "passione sfarfallegiante" (ed Italo Calvino ne ha illustrato i tratti più caratteristici), che induce a passare da un mestiere all'altro, da una professione all'altra. Il capitalismo ha reso possibile, storicamente ciò che auspicava il socialismo utopistico e lo stesso socialismo scientifico, anche nutrito di utopia.
L'"uomo flessibile" è, appunto, un uomo chiamato, nell'organizzazione della produzione e del lavoro, a rinunciare all'idea del "posto fisso", a disporsi alla "flessibilità" e alla "mobilità". Si è detto: "chiamato". Ma, qui, la vocatio della cultura cristiana, della civiltà industriale moderna e capitalistica non c'entra più. Egli è "chiamato", sì, ma da un capitalismo non più di "tempi moderni" (Chaplin), bensì di "tempi post-moderni" o, se si vuole, "post-industriali". O, da ultimo, di tempi che si dicono, ormai, come si avvertiva, della globalizzazione, della new economy. Tempi che hanno prodotto, anzi tutto, se si vuol dar retta ad un sociologo illustre della London School of Economecs, un flexible capitalism, che, tuttavia, del vecchio capitalismo, sempre fornito di energie che gli permettono di cambiare pelle, conserva il timbro della "modernità", almeno se per "modernità" deve e può intendersi un'attitudine impareggiabile ad imbrigliare l'uomo nelle reti della ratio, del calcolo dell'intelligenza strumentale, della quale si fa organo pur sempre il caput il capo (onde capitalismo).
Il sottotitolo dell'opera di Richard Sennet chiamato in causa è il seguente: The personal consequences of work in the capitalism. E, certo il "nuovo capitalismo" - o il "capitalismo flessibile" - ha una potente influenza, alla quale non ci si può sottrarre, sulla "vita personale" degli uomini: esso fa tacere anche i lamenti ideologici sulla "fine del lavoro" (Rifkin) o sull'"orrore economico" della civiltà che si è detta post-cristiana, perché non più civiltà della vocatio (Viviane Forrester). E che il "nuovo capitalismo abbia questa influenza lo dimostra proprio il fatto che esso ha prodotto e produce "lavoratori flessibili". O, anche, ha sbarrato e sbarra la porta a una civiltà non più del lavoro, bensì dei lavori (Accornero). La quale, certo, può risolversi anche in una civiltà del "lavoro creativo" o dell'"ozio creatico" (De Masi). Ma resta che si tratta anche di una civiltà in cui il problema più assillante è quello della disoccupazione alla risoluzione del quale attendono le più svariate e più conflittuali politiche occupazionali. Una cosa è certa, intanto: si spalanca lo spazio per una vera e propria futurologia del lavoro. E su questa stessa futurologia, con i suoi testi già scritti o che si devono ancora scrivere, bisogna fare apposito discorso, il meno ideologicopossibile e il più scientifico possibile.
Né può essere, questo discorso, condotto senza un approccio interdisciplinare. Il lavoro, infatti, già da un pezzo, è divenuto, esso stesso, un oggetto diviso di studio. E, per ciò stesso, c'è bisogno, per studiarlo, magari senza l'assillo delle "domande" politiche di turno e senza le prevaricazioni di molteplici prospettive sindacali, di lavoratori intellettuali divisi: dal sociologo del lavoro allo psicologo del lavoro, dall'economista del lavoro al giurista del lavoro. Non giustapponendo, si capisce, i contributi di studio di questi lavoratori intellettuali. L'oggetto di studio è unico. Guai a dividerlo senza ricomporlo in unità. Soprattutto con un obiettivo preciso: quello di commisurare criticamente due culture o due civiltà: quella tramontata della vocatio e quella ormai in piena espansione della flessibilità. Il futurologo del lavoro non può non essere anche uno storico del lavoro.
E' che non si possono convenientemente valutare, nello stesso momento in cui si vanno già svolgendo, le res gerendae del mondo del lavoro senza conoscerne le res gestae. Ciò che in questo mondo è accaduto, sta accadendo ed accadrà riguarda un uomo ed anzi ha come protagonista un uomo il cui passato ed il cui futuro si intrecciano in un presente in cui le ragioni del rispetto della sua "vocazione" e quella della necessità della sua "flessibilità". Osservata, questa, almeno qui, proprio come il rovescio della "vocazione". Ma va detto che, così osservata, contro una "vocazione" che "naturalizza" ogni mestiere ed ogni professione dell'uomo, per ciò stesso vincolandolo ad un destino invalicabile, la "flessibilità" può anche assumere il suo volto "umanistico", se implica l'idea di un'attività molteplice, varia, plurilaterale, in forza della quale l'uomo può realizzarsi in tutta la sua pienezza e non essere avvilito in una parte e in una parte soltanto di sé. si accennava alla possibilità di un risolversi del "lavoro flessibile" in un "lavoro creativo", in una parola dell'homo flexibilis in homo ludens. Ed è una possibilità, questa, che sembra faccia valere un'istanza non trascurabile: quella che emerge da certo neoumanesimo tedesco tra Settecento ed Ottocento (Hoelderlin, Schiller), non estraneo alla coscienza di Marx; un'istanza che, rispettata fino in fondo, toglie al lavoro la sua fisionomia "servile" e lo fa vibrare di libertà.
Nell'ideologia - giacché di questo si tratta - del "lavoro flessibile" c'è posto anche per questa istanza. Ma bisogna subito avvertire che si frantuma non appena si scopre che la "flessibilità" è il necessario prodotto storico di una "flessibilizzazione" di fatto esercitata dai poteri che vigono, ormai, in un'organizzazione della produzione e del lavoro, che "flettono", piegano alla loro volontà un uomo che, anche se non vive di solo lavoro (Totaro), lavora per vivere. E che cosa dicono, imperativamente, questi poteri, ad un uomo che vuole, e tuttavia spesso non può, lavorare per vivere? Né più né meno, questo: tu lavorerai quando noi vogliamo e nella misura in cui a noi conviene (la logica dell'impresa: efficienza, produttività, competitività); e, se lavorerai, rassegnati a fare non ciò che puoi e devi fare ubbidendo ad una "vocazione", bensì anche ciò che l'assenza di una "vocazione" non ti permette di fare con la gratificazione che fiorisce solo quando lavoro e "vocazione" coincidono.
Da questo punto di vista, può nascere anche la nostalgia per la cultura della vocatio, per la civiltà del lavoro diviso. Almeno se lo stesso concetto di "Flessibilizzazione" non è logicamente impiegabile se non a patto che ci si riferisca, in concreto, ad un soggetto che "flette" e ad un soggetto (anzi un oggetto) che viene "flettuto". Il soggetto che "flette", ormai, si è individuato: è il "capitalismo flessibile". Non ci vuole molto a individuare il soggetto (ed anzi l'oggetto) "flettuto": lo puoi vedere in ogni figlio di mamma che, per essere "degno del suo cibo" (San Paolo), curva la schiena sotto un fardello (il lavoro che è ponos , fatica, pena, peso) che, per "vocazione" non può e non deve portare. E, poi, leggi, nella Laborem exercens di Papa Giovanni Paolo II: Prima di tutto il lavoro è "per l'uomo" e non l'uomo "per il lavoro" (I,6)!



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