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Riflessioni su identità e valori meridionali.
Un commento al libro di Mario Alcaro

di Luigi Niger




Non poche volte, anche in tempi relativamente recenti, in alcune città del Nord o del Centro, ai miei figli, tra un misto di stupore e di compiacimento, veniva detto: "non mi sembri un meridionale"; "possibile che tu sia del Sud?" e tanti altri luoghi comuni.
Andavano considerati (vanno considerati) complimenti o offese?
Né l'uno, né l'altro; solo stereotipi e pregiudizi, stupidi e tristi, che popolavano e ancora popolano cervelli colti e meno colti e che, quel che più amareggia, erano e continuano ad essere condivisi da un discreto numero di meridionali, come giustamente sottolinea anche P. Bevilacqua nella penetrante presentazione che fa dell'ultimo libro di M. Alcaro (Sull'identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino, 1999).
Un libro stimolante a livello cognitivo per i rovesciamenti categoriali che opera, per i nuovi-vecchi valori che ri-propone, per i problemi che solleva, per i percorsi che suggerisce; un libro coinvolgente a livello emotivo-affettivo, soprattutto per chi nel Sud è nato e vissuto, per i ricordi che risveglia, per le emozioni che scatena, per i vissuti che spinge a riesplorare.
Ad una prima frettolosa lettura sembra che le pagine di Alcaro siano intrise di poesia, di romanticismo, di nostalgia nel voler recuperare un mondo che non c'è più o che persiste solo in piccola parte con tutti i valori tradizionali che si portava e si porta dentro.
Ma non è così, e su questo sarebbe utile ritornare, soprattutto per non scambiare in Alcaro la passione sofferta con il rimpianto, l'impegno culturale e civile con la fuga in un passato quasi scomparso e talora mitico.
Se certamente i valori (il dono, la famiglia, i rapporti interpersonali, la solidarietà, la natura, la madre, il culto dei morti,ecc.) di cui parla Alcaro, che hanno ispirato e condizionato i vissuti nella storia del Sud, non possono essere semplicisticamente considerati vizi, tare, piaghe, ma, opportunamente ripensati, virtù, risorse, possibili antidoti di un esistere che progressivamente va degradandosi, è altrettanto vero che questi valori non possono rappresentare tout-court il fertile terreno di coltura, né tanto meno il collante dei peggiori fenomeni presenti nel Sud (dalla criminalità mafiosa allo scempio del territorio). Qualsiasi forma di bieco determinismo costituisce un'operazione intellettualmente disonesta oltre che eticamente riprovevole.
E questa mi sembra una delle tesi forti di Alcaro largamente condivisibile.
Tuttavia bisognerebbe anche chiedersi quanto della permanenza dei suddetti valori abbia contribuito a far sì che il Meridione non sia mai stato in grado di fare una rivoluzione, di mettere in discussione la rigida stratificazione sociale, di promuovere (o perlomeno di non colpevolizzare) l'autonomia e l'indipendenza dell'individuo, di indignarsi per alcuni comportamenti variamente violenti e sempre lesivi della dignità umana. Forse, bisogna aggiungere che questo sistema di valori, rafforzato da una buona dose di fatalismo nonché da un'atavica rassegnazione a lungo interiorizzata, ha facilitato la conservazione, la stabilità, la continuità senza rotture, l'immobilismo, nonostante alcuni mutamenti di facciata, imposti per lo più dai mass-media e dal raggiungimento di un certo benessere più o meno diffuso.
Oggi che, per molti aspetti, come si dice nel Sud, i buoi sono scappati dalla stalla, si cerca affannosamente di recuperare questi valori, non più vissuti in modo tradizionale, frammenti e residui autentici che per Alcaro potrebbero avere un carattere universale e rappresentare preziose risorse per il futuro sulle quali ri-fondare una nuova comunità per un nuovo stato.
Sia detto en passant: non pochi studi antropologici, etnologici, tanatologici, gastronomici...fatti più per assicurarsi ingressi e rapide carriere universitarie piuttosto che per riscoprire valori e comportamenti, non solo danneggiano la conoscenza del passato ma lo coprono soprattutto di ridicolo, anche perché talora suggeriti dall'ansia di attirare turisti annoiati e superficiali.
Alcaro da pensatore serio, colto e fine, per lo più ignora questi occasionali prodotti subculturali. E a tal proposito concordo con la sua affermazione che nel sud "modernità e tradizione" si sono fuse in una sintesi "nient'affatto virtuosa" che "attinge spesso al peggio delle due forme"; anzi, sarei dell'avviso di utilizzare i due concetti, modernità e tradizione (dopo averne chiarito senso e significato), e del loro rapportarsi, come possibile chiave di lettura del Meridione.
Condivido pienamente la critica puntuale, aspra e netta della modernizzazione capitalistica, dell'ideologia economicistica, del pensiero liberista e quindi delle varie acritiche esaltazioni del mercato, della ricchezza, del profitto in nome dei quali il Meridione è stato e continua ad essere giudicato. Alcaro, attraverso un ripensamento della tradizione e della modernità, rovescia la prospettiva trasformando i giudici in imputati, anche se ancora permane come metro di valutazione, sia nel Nord che nel Sud, quello che Bevilacqua chiama il "paradigma emulativo".
In un libro breve ma intenso e ricco di riflessioni e di spunti vorremmo trovare tutto o almeno di tutto (cosa impossibile), per cui appena sfiorati risultano il ruolo della Chiesa e delle pratiche magiche, come pure, forse, sarebbe stato opportuno approfondire il peso che povertà (senza nostalgie pauperistiche), miseria e ignoranza hanno avuto nella costruzione di quel sistema di valori.
E non è anche un valore non solo l'accettazione ma anche il funzionale inserimento nella vita comunitaria meridionale del DIVERSO (dal portatore di handicap, al folle, al figlio illegittimo...)?
Qualche altra rapida annotazione.
In riferimento al dono Alcaro scrive che è "uno scambio di diseguali da cui nascono obbligazioni che rafforzano il legame sociale" (p.18). Rafforza il legame ma consolida anche una condizione di subalternità, (scriveva Alvaro, citato dallo stesso Alcaro, che il dono serviva "a placare i rappresentanti del potere") dato che lo scambio nella società meridionale è per lo più unidirezionale, va dal basso verso l'alto, rientra (direbbe Caillè) nell'esclusivo ambito degli "interessi strumentali"; comunque pratica di tipo feudale sostituita nella società capitalistica avanzata dal volontariato, come legame di solidarietà, sulla quale andrebbe fatta una riflessione, che per ovvi motivi di spazio, va rimandata in altra sede.
Tutt'altro significato aveva lo scambio dei doni nel sistema di reciprocità: "è un sintomo - come scrive Alcaro - che attesta la presenza di una forte socialità primaria" (p.25). In questo caso ci troviamo di fronte alla subordinazione della logica dell'interesse individuale a quella dell'"incondizionalità".
E a questo punto va detto esplicitamente quello che a me pare il tema dominante (e anche progettuale) della fatica di Alcaro e cioè che una società nasce dalla fiducia più che da un contratto e ciò che esprime alla perfezione la logica della fiducia è quello che Caillé chiama il paradigma del dono. Da qui l'attenta ricerca di Alcaro delle ragioni della fiducia nella società meridionale; insomma, un Alcaro pienamente a suo agio in quella che è stata chiamata la tribù dei maussiani.
Di estremo interesse è la parte dedicata ai rapporti interpersonali, nei quali acutamente Alcaro coglie il carattere personalizzato e quindi la carica antiautoritaria nonché la conseguente sfiducia istituzionale.
Sia detto di sfuggita: non è stata la personalizzazione del rapporto a far sì che il fascismo nel Sud assumesse spesso un aspetto macchiettistico e farsesco? In ogni caso chi scrive confessa con compiacimento di aver sempre ricercato, amato e praticato il rapporto personalizzato come un valore al quale non saprebbe rinunciare, pena l'avvilente caduta nell'anonimato.
Notevole il capitolo dedicato alla natura, ripensando Telesio, Bruno e Campanella e polemizzando con Cartesio e Bacone; ma è proprio vero che "i fini, le cause finali sono nella natura" (p.62) o non è forse vero il contrario e che quindi "se la natura non sa dove va, spetta a noi la responsabilità di metterci un po' di ordine"? (J.P. Changeux-P. Ricoeur, La natura e la regola, Raffaello Cortina, Milano, 1999, p. 182.
Per carità uomini dominatori no, ma ordinatori sì.
E poi la predominanza della "mentalità materna" nell'ethos meridionale. Le confutazioni delle tesi di U. Galimberti e di A. Gambino, per lo meno in riferimento al sud, mi sembrano più che convincenti, anche se sarebbe opportuno discuterne senza lasciarsi ingabbiare da rigidi schemi psicoanalitici o storico-politici, che spingono a forzare il reale presente o quello passato o a pericolose fuorvianti sbrigative generalizzazioni.
Sulla base della mia esperienza personale e professionale, e quindi anche clinica, posso segnalare che quando le madri hanno smesso di essere tali e si sono messe a fare i padri (spesso per compensarne una colpevole o incolpevole assenza), facendo prevalere le regole rigide sull'indulgenza, l'inflessibilità dei principi sul perdono, le punizioni sulle carezze, ebbene, quasi sempre, in tutti questi casi, i danni subiti dai figli sono stati profondi e, talora, duraturi. Hanno, infatti, creato nei figli vuoti affettivi, frustrazioni profonde e quindi comportamenti oscillanti facilmente dal rigorosamente logico e freddo a quello irrazionale e crudele.
La nostra esistenza faticosamente tesa a una ricerca di senso più che di autorità, di ordine e di legge, ha bisogno di dolcezza, di solidarietà e di finezza. Se vogliamo tenere distinti i due ruoli, quello paterno e quello materno (che probabilmente più che alla biologia o alla genetica sono ascrivibili alla storia, alla cultura e all'immaginario collettivo), allora più che di padri abbiamo bisogno di madri. Se riteniamo largamente superati (cosa auspicabile) i due ruoli da tempo rigidamente assegnati, possiamo dire che mai come oggi necessitiamo possibilmente di un padre e di una madre con tutti i tratti di cui abbiamo parlato, naturalmente contemperati secondo un equilibrio dinamico.
Comunque si può affermare che: a) esistono (e sono esistite), nel Sud come nel Nord, madri liberanti e madri castranti, madri mafiose e madri antimafiose, con o senza latte; b) ancora una volta Marx aveva ragione a sostenere che se la donna costituisce l'altra metà del cielo, noi, fino a questo momento, abbiamo perso metà della saggezza. E non è poco.
Dulcis in fundo, il capitolo dedicato al tema della morte e del dialogo fra i vivi e i defunti; capitolo avvincente, nel quale trovo affascinante e attualissima l'indagine sulle ragioni dell'assenza, mentre quella sulle ragioni della presenza, soprattutto nel Meridione, nelle sue tradizionali quotidiane manifestazioni stancamente ripetitive ed esangui, mi sembra in non pochi casi ermeneuticamente forzata.
Bel libro questo di Mario Alcaro, ricco e problematico, con un obiettivo politico esplicitamente dichiarato: "indicare un possibile orientamento a coloro che sono impegnati in un'opera di rinnovamento della realtà del Sud" (p. 4).
Il modo migliore per accogliere questo mio invito è leggere il libro, discuterne e studiare le possibili strategie tecniche ed operative per rinnovare. Ovviamente oggi e non dopodomani, per non annoverare, questo intelligente e appassionato contributo di Alcaro, tra i tanti "progetti gettati".



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