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L'Orlando Furioso della Compagnia della Fortezza

di Letizia Bernazza




Alla diffusione in Italia del teatro in carcere hanno contribuito, da una parte, la sperimentazione teatrale degli anni Settanta; dall'altra, le nuove direttive legislative (legge Gozzini), volte ad "umanizzare" la vita negli istituti di pena. Attualmente l'Italia è il Paese con il più alto numero di compagnie teatrali di detenuti - attive in ottantacinque case di reclusione - tanto che per far fronte ad una realtà di proporzioni così considerevoli, negli ultimi anni sono nate associazioni ("Tievin" di Milano, "Carte Blanche" di Volterra, "TAM" di Padova) e riviste ( Ristretti orizzonti , Ora d'aria ), sono stati promossi convegni (il mese scorso, asd esempio, si è svolto nel capoluogo lombardo il Terzo Convegno Europeo di Teatro e Carcere). Nel panorama nazionale, la Compagnia della Fortezza è un esperimento sui generis contraddistinto da almeno due elementi fondamentali. In primo luogo si tratta di un gruppo "stabile" che vanta un repertorio di dieci spettacoli, frutto di un'attività quotidiana sostenuta dal regista Armando Punzo e dallo staff di "Carte Blanche"; in secondo luogo i trenta detenuti hanno una tale preparazione attorica da essere considerati alla stregua di attori professionisti. Il segreto di questo successo risiede nel fatto che il regista non ha mai considerato il teatro in carcere come un passatempo per dilettanti o uno strumento terapeutico per recuperare "individui deviati", ma come un'esperienza conoscitiva che permette al detenuto di scoprire la propria dimensione etico-esistenziale e di costruirsi uno spazio-tempo separato dalla routine della prigione. Nell'Orlando Furioso, che ha inaugurato il decimo anno di attività della compagnia, il regista ha messo a confronto, attraverso un procedimento dialettico, finzione (l'opera letteraria) e realtà (lo stato di reclusione) con il risultato di stimolare riflessioni sulla condizione marginale vissuta dalle persone rinchiuse negli istituti di detenzione e, soprattutto, sugli ostacoli da superare per far resistere nel tempo il lavoro del gruppo. Prima di affrontare l'Orlando Furioso - dichiara Armando Punzo - bisogna capire cosa sta succedendo. La compagnia ha rischiato di sparire. Abbiamo vissuto difficoltà enormi, all'esterno del carcere, che si sono ripercosse sul teatro. [...] Ci siamo sentiti come Pupi siciliani appesi in un armadio che una volta all'anno vengono tirati fuori per poi essere rinchiusi di nuovo. E allora da parte mia è venuto il bisogno di scuotere questa situazione proprio con il teatro [...]. Orlando Furioso è arrivato come un antidoto alla malattia, al virus, all'abbandono, alla morte . [Armando Punzo, in A. Cremonini (a cura di) La Compagnia della Fortezza, Roma, Stampa Alternativa, 1998, pp. 51-2].
La trama articolata del poema ariostesco ha permesso al regista di muoversi con molta libertà nell'universo dell'Orlando e di autoriflettervi il ritrovato entusiasmo dei membri della Fortezza dopo un periodo di profonda crisi. Crisi economica, arginata grazie ai finanziamenti dell'Ente Teatrale Italiano e del Dipartimento dello Spettacolo, e d'identità. Nell'Orlando Furioso, infatti, il tratto autoreferenziale è il dispositivo costruttivo principale della messa in scena e l'opera letteraria, destrutturata e ricomposta con una tecnica di tagli e innesti, è il punto di partenza da cui condurre il lavoro di scandaglio, individuale e collettivo, per raccontare la storia della compagnia. Senza eludere il ritmo incalzante del poema, Armando Punzo riduce all'essenziale il numero dei protagonisti e dà particolare risalto al tema dell'amore di Orlando per Angelica, intrecciando all'affannosa ricerca della fanciulla da parte del paladino domande e testimonianze sulla condizione dei detenuti. Il reciproco rimando dalle situazioni letterarie a quelle reali non tocca mai però i toni della tragedia: il regista, in sintonia con l'impianto favolistico del testo originale, concepisce lo spettacolo alla maniera di un gioco ilare e gioioso che allenta la tensione drammatica delle vicende e rende meno esacerbate le passioni dei protagonisti. L'atmosfera ludica, a tratti onirica, della rappresentazione viene suggerita sin dall'inizio da suoni di carillon, nenie, voci infantili, che riempiono il cortile del carcere all'interno del quale è allestita un'imponente struttura lignea di trentasette metri per quindici delimitata da alte parti, dislocate su vari piani. In calzoncini rossi, scarpe da ginnastica, corazze di latta sul torace nudo, segnato da vistosi tatuaggi, gli attori si spostano da un percorso privo di uscita a un cunicolo tortuoso, da una piattaforma elevata a un carrello mobile trascinato da altri attori, e danno vita a azioni simultanee che permettono allo spettatore di seguire le imprese dell'eroe prescelto con lo stesso gusto divertito di chi si aggira fra i baracconi di un luna park. Come dei Don Chisciotte, essi si battono a coppie con manici di scopa dismessi, simulano battaglie equestri a cavalcioni l'uno dell'altro, evocano morti improvvise e resurrezioni provvidenziali ai piedi dello spettatore di turno che li vede sparire di colpo fra i meandri della scena. Le corse e i combattimenti non lasciano spazio all'interpretazione psicologica dei personaggi, bensì ad azioni, quasi sempre corali, che prorompono verso l'esterno con un registro testuale e vocale al massimo delle potenzialità fisiche degli attori. Sono i loro corpi, pulsanti di sudore e muscoli, a esprimere la travagliata ricerca di Orlando e, nel contempo, il bisogno dei detenuti di ritrovare la libertà nel labirinto-prigione. La costruzione lignea si rivela, infatti, una sorta di "carcere nel carcere" e i protagonisti cercano disperati una via d'uscita, passando fra i vari ambienti angusti come celle. In alcuni momenti, poi, il furore degli attori si placa: con le teste chine, le scapole curve, le mani penzolanti, li troviamo accovacciati dietro un angolo, immobili su troni ricavati da vecchi sedili cinematografici, in piedi con gli occhi persi nel vuoto. All'azione si sostituisce la tensione e la fissità delle posture, i movimenti dinoccolati tematizzano lo stato di abbandono dei detenuti, somiglianti a dei pupi siciliani (lo stesso Armando Punzo fa cenno di una lezione ricevuta dal puparo siciliano Mimmo Cuticchio) lasciati in disparte dopo l'utilizzo. Durante queste brevi pause, l'energia compressa nei corpi degli interpreti si trasferisce nelle loro voci, nelle loro parole, e alle ottave ariostesche, recitate con una dizione perfetta, si mescolano le storie private dei detenuti raccontate in napoletano, siciliano, romanesco. Lo slittamento dal ruolo dell'attore-personaggio a quello detenuto-persona frammenta l'unità spazio-temporale della rappresentazione dove il rinvio costante dal teatro alla vita stimola la riflessione dello spettatore. Una riflessione che non produce catarsi neanche quando gli attori riescono a trovare la via per uscire dal labirinto e l'Orlando arriva al finale: il gioco collettivo, apparentemente liberatorio, si conclude di fronte ai detenuti-attori - allineati in una specie di ripostiglio a due piani - inerti come pupi riappesi ai loro ganci.
La pagina è a cura di Valentina Valentini



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