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A proposito della scuola che cambia

di Vincenzo Orsomarso



Appare ormai evidente come il processo riformatore avviato nella scuola, pur muovendo per segmenti vada nella direzione di un cambiamento che, secondo il Ministero della Pubblica Istruzione, sarà pienamente apprezzabile solo nel momento in cui ogni singolo atto sarà collocato al suo giusto posto. Una struttura abbastanza complessa che si fonda su alcune scelte centrali in materia di obbligo formativo e di autonomia scolastica sulle quali è il caso di soffermarsi a riflettere.
Quello che va sottolineato fin dall'inizio del nostro ragionamento è che il cuore della riforma è rintracciabile nel tentativo di adeguare la struttura ordinamentale e i contenuti essenziali del sistema scolastico e formativo ai mutamenti intervenuti nel processo produttivo, un adeguamento imposto dalla centralità che la valorizzazione delle risorse umane va assumendo nell'ambito dell'organizzazione del lavoro. Non a caso istruzione, formazione, ricerca sono diventati i capitoli centrali dell'Accordo per il lavoro, sottoscritto tra Governo di centro sinistra e parti sociali il 24 settembre 1996, e del Patto per lo sviluppo e l'occupazione del 22 dicembre 1998.

Nel primo testo vengono recepiti gli orientamenti maturati in sede comunitaria in materia di formazione scolastica e professionale; infatti l'obiettivo dichiarato diventa quello di innalzare complessivamente il livello di scolarità e di creare le condizioni per assicurare continuità di accesso alla formazione per tutto l'arco della vita, in considerazione della crescente richiesta di adattabilità e continua capacità di apprendere registrata nei processi produttivi.
In questo quadro di intenti si colloca l'innalzamento dell'obbligo scolastico, ristrutturato nei cicli e rinnovato nei curricoli, il diritto alla formazione fino a 18 anni.
Temi che vengono ripresi e approfonditi nel secondo documento, dove, tra l'altro, governo e parti sociali, in ragione del passaggio a quella che viene definita scuola dell'autonomia , concordano intorno alla necessità di definire un sistema nazionale di valutazione autonomo e indipendente rispetto all'Amministrazione.
Ma ciò che risulta particolarmente rilevante è la definizione dei percorsi per l'espletamento dell'obbligo formativo, che può essere assolto nell'ambito del sistema di istruzione scolastica, della formazione professionale di competenza regionale, ma anche nell'ambito di percorsi di apprendistato come disciplinato dall'art. 16 della legge 196/97 che fissa in 120 ore medie annue l'impegno formativo per l'apprendista.
La questione dell'espletamento dell'obbligo formativo è uno dei temi centrali della riforma della scuola e la scelta di far rientrare l'apprendistato tra le possibilità offerte ai giovani quindicenni che hanno concluso l'obbligo scolastico non risponde a nessuna necessità di ordine pedagogico ma solo alle pressanti richieste di un sistema industriale attardato a competere più sui costi che sul terreno qualità della produzione e pertanto ancora interessato all'assunzione di considerevoli segmenti di forza lavoro scarsamente scolarizzata.
D'altra parte, come sembra dimostrare la riduzione di un anno della scuola di base, l'impianto complessivo del riordino dei cicli sembra poco interessato a scardinare i meccanismi di selezione che ancora funzionano nella scuola e che continuano a colpire soprattutto gli studenti provenienti dalle realtà sociali e culturali più svantaggiate.
La scelta di portare a sette anni la scuola di base e di anticipare la scelta della scuola secondaria risponde solo al principio della riduzione della spesa e dell'allineamento della scuola italiana alle politiche europee ispirate alla contrazione del welfare. Sia ben chiaro il tempo e la quantità non sono tutto nei processi di apprendimento-insegnamento ma sono i presupposti alla qualità, costituiscono l'elemento determinante per sostenere i ritardi culturali; infatti la soluzione di molti problemi educativi risiede nella differenziazione dell'intervento didattico, nella possibilità di ciascuno di poter disporre del tempo di apprendimento effettivamente necessario.
Inoltre la riforma riducendo il tempo assoluto della formazione di base non solo restringe gli spazi per attività compensative dello svantaggio culturale, ma fa della scuola non un luogo di contestualizzazione, di riflessione sulla storicità del presente, secondo il punto di vista della pedagogia democratica, bensì parte di un sistema che produce "eccedenza informativa" invece di quadri di riferimento che consentano di valutare le ragioni che rendono uno scopo desiderabile, preferibile rispetto ad un altro.
La scuola che si delinea è quella della flessibilità, dell'addestramento mentale, dell'orientamento precoce, un impianto che di fatto si arrende all'ideologia confindustriale della "didattica breve" in vista di una disponibilità al lavoro precario, saltuario e flessibile.
Arretratezza dei ceti imprenditoriali italiani o l'altra faccia del postfordismo che affianca ai lavoratori della conoscenza gli strati subalterni del terzo settore , i precari senza rete di protezione, il lavoro nero ecc.? La questione è aperta, mentre quello che pare evidente è un'idea di politica non come governo dello sviluppo ma come aderenza ai processi economici in corso.
I questa stessa prospettiva sembra collocarsi anche l'autonomia scolastica, considerata il cuore pulsante della riforma sotto il profilo didattico ed organizzativo; un'autonomia che rischia di assumere un carattere prevalentemente finanziario, conseguenza del passaggio al cosiddetto "Stato leggero" che impone il reperimento sul territorio di risorse aggiuntive, concesse magari in cambio di un adeguamento delle attività di insegnamento alle richieste dello sponsor. A questo proposito non va trascurato il fatto che conoscenza e sapere diffuso sono le leve della crescita economica; inoltre è fondamentale per il mercato la formazione di consumatori capaci di diventare utenti di prodotti sempre più sofisticati.
L'autonomia finanziaria quindi, in presenza di una politica interessata a circoscrivere gli ambiti di intervento dello stato nell'erogazione dei servizi sociali, rischia di condurre la scuola dell'autoreferenzialità all'assunzione di un'identità dettata dai soggetti economici e dalle dinamiche prevalenti nel territorio.
Senza dubbio l'autonomia resta una rivendicazione essenziale non solo contro il burocratismo e il centralismo ma anche contro il sapere codificato e il nuovo conformismo implicito nell'industria culturale di massa.
La frammentazione sociale e la manipolazione ideologica e culturale richiedono la ricerca di spazi e la scuola potrebbe essere sede di produzione di attività che siano espressione della socialità degli individui. Luogo di cooperazione tra diversi soggetti per la realizzazione di relazioni interpersonali e di saperi capaci di una lettura critica dell'esistente.
L'autonomia a cui forse vale la pena aspirare è quella che si propone lo sviluppo di poteri "locali" e "collettivi" capaci di riformare la scuola dal basso, per farne un laboratorio dove operare tra presente e passato, rivisitando, tra l'altro, tradizioni, culture, legami comunitari dissolti dall'incalzare della modernità. Un sistema di autonomie gestito dagli insegnanti e discusso da genitori e studenti; un'ipotesi di governo dell'istruzione e della formazione che non può fare a meno di un asse formativo flessibile e unitario, che indirizzi la scuola pubblica senza imporvisi, di un sistema articolato di sostegno finanziario e scientifico.
Nell'immediato la premessa va individuata nella rottura con ogni residua autoreferenzialità e nello sforzo di fare della scuola un'impresa sociale collettiva che per essere tale deve attrezzarsi di capacità di apprendimento e di comunicazione; quindi di un impianto organizzativo sostanziato dal lavoro cooperativo degli insegnanti, dall'agire di gruppi di lavoro autoregolati e da un flusso informativo e comunicativo efficiente, da una capacità, come dicevamo, di ascolto e di dialogo tra i soggetti interessati ai processi di apprendimento-insegnamento. E' un insieme di questioni sicuramente complesse e difficili da affrontare, come d'altra parte hanno sottolineato alcuni insegnanti nel corso del dibattito aperto da Ora locale sul numero di Aprile-Maggio; rimane il fatto che si tratta di temi da cui non può prescindere un agire collettivo che voglia cimentarsi nella costruzione dal basso di un'organizzazione scolastica non ridotta a semplice funzione di sistema.



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