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Caccia grossa dell'economia nei territori della cultura

di Vincenzo Orsomarso



Dopo la Fine del lavoro e il Secolo biotech Jeremy Rifkin ritorna a discutere delle nuove frontiere del capitalismo, del cosiddetto "capitalismo culturale", in cui la proprietà tende ad essere sostituita dall'accesso a pagamento ad ogni genere di bene, servizio, relazione sociale e culturale, anche queste ultime ormai acquisibili come esperienza sottoposta ai criteri di mercato. Ciò in forza di un poderoso processo di reificazione, di un percorso di mercificazione che dallo spazio e dai beni è passato alla totalità del tempo di vita degli individui, devastando così culture, identità e ambienti.
Si tratta di mutamenti che trovano la loro ragione in un'"economia complessiva basata sulle reti" che guida e simultaneamente è guidata dall'accelerazione dell'innovazione tecnologica. Un movimento che rende rapidamente obsolete attrezzature, beni e servizi e di conseguenza preferibile l'accesso, l'uso temporaneo di una proprietà fisica, piuttosto che l'acquisizione. La proprietà del capitale fisico diventa sempre meno rilevante, per le grandi aziende un mero costo operativo più che un patrimonio, "qualcosa da prendere a prestito più che da possedere" (p. 7). E' il capitale intellettuale la forza dominante, l'elemento più ambito della nuova era: nella new economy sono le idee, i concetti, le immagini le componenti fondamentali del valore.
La velocità dell'innovazione e il ricambio dei prodotti dettano i termini della "nuova economia delle reti", un processo impegnativo e continuo che impone ai soggetti della competizione globale di lavorare alla riduzione dei tempi di sviluppo dei nuovi prodotti.
In una simile situazione risulta evidente come ciò che conta è la capacità d'accumulo e il controllo sulle condizioni e sui termini che veicolano l'accesso a conoscenze, idee ed esperienze fondamentali. E' un mutamento di tale portata che va modificando l'intero impianto dell'organizzazione della produzione, che tende ad assumere a riferimento il modello hollywoodiano, un approccio reticolare all'organizzazione produttiva che raccoglie più aziende specializzate, ciascuna delle quali contribuisce al successo dell'impresa apportando le proprie competenze ed esperienze.
Le unità produttive costituiscono quindi una rete, la cui vita è limitata dalla durata del progetto; una soluzione che consente alle principali aziende transnazionali di liberarsi dal fardello di impianti e attrezzature. D'altra parte in uno stato di crescente concorrenza, in un processo di produzione di beni e servizi sempre più diversificati e in presenza di cicli di vita sempre più brevi, le imprese mantengono la loro leadership controllando i canali di finanziamento e di distribuzione, le competenze e i saperi tecnici relativi a un processo produttivo, trasferendo ad entità più piccole il peso della proprietà e della gestione del capitale fisso (cfr. p. 37). Ecco perché l'outsourcing e il franchising d'impresa sono diventati gli elementi portanti dell'organizzazione dell'emergente economia delle reti.
Le idee, i concetti, le capacità relazionali e comunicative, le competenze tecniche, in una parola il capitale immateriale è ciò che oggi rende un'attività economica un'impresa, e nel capitale immateriale rientra la capacità di costruire relazioni commerciali durature con l'utente finale. A tale scopo risponde la costituzione delle cosiddette "comunità di interesse" (p. 147) che rendono possibile tra l'altro un rapporto interattivo tra cliente e azienda, quindi anche il tasferimento di informazioni ed esperienza dal primo al secondo soggetto. Una strategia che di fatti rientra nei percorsi di ricerca di quel sapere non formalizzato e sociale che è una delle componenti della valorizzazione nell'"era dell'accesso"; non a caso una funzione fondamentale del marketing è diventata quella di sondare i territori collettivi della cultura popolare alla ricerca di significati culturali "che abbiano il potenziale di essere trasformati, attraverso le arti, in esperienze mercificate" (p. 229).
Ma i rischi connessi all'assorbimento di porzioni sempre più vaste di territori culturali nella sfera economica sono notevoli, in primo luogo il venir meno della fiducia sociale e dell'empatia; in questo modo la stessa economia capitalistica, secondo Rifkin, è destinata a perdere l'enorme bacino di esperienze a cui attinge la produzione culturale, ormai motore dell'accumulazione capitalistica.
La cultura ha bisogno di essere rivitalizzata, di spazi e di tempi autonomi di produzione; ciò risponde solo in parte a ragioni economiche: questo processo è l'unico che consente di generare e rigenerare i valori umani e allo stesso tempo lo spazio geografico in cui si collocano.
Riportare cultura ed economia ad una equilibrata ecologia è per l'autore "una delle preoccupazioni più pressanti della nuova era", un obiettivo praticabile nella misura in cui la cultura è trasformata in forza politica coesa in grado di fare da contraltare alle reti economiche globali e, contemporaneamente, di costituire la precondizione necessaria alla loro sopravvivenza (cfr. p. 343). Pertanto è necessario difendere identità culturali ed ambiente, entità strettamente correlate tra loro e messe a repentaglio dagli accordi economici internazionali.
Si tratta di una proposta estranea ad ogni tipo di fondamentalismo: in questo caso, la difesa della cultura e dell'identità locale vuole produrre nuclei di cittadinanza che si arricchiscano continuamente nel confronto con un mondo riconosciuto come culturalmente variegato (cfr. pp. 344-345).
L'ipotesi di Rifkin, per quanto sostenuta dallo sviluppo di movimenti e iniziative contro la globalizzazione economica, da sola non è sufficiente. La mercificazione della cultura e delle relazioni sociali così come le "personalità multiple" e la teatralità, caratterizzante l'interazione sociale, sono funzioni riconducibili al regime flessibile dell'accumulazione capitalistica, che per sua natura richiama in produzione saperi, linguaggi, capacità relazionali, affettività. E' quindi nel rapporto sociale di produzione che è necessario scavare per individuare le contraddizioni su cui far leva. Un compito oggi particolarmente complesso, infatti il rapporto di produzione in epoca postfordista, proprio perché include in sé la vita nel suo insieme, è diventato talmente pervasivo da risultare di difficile lettura. I percorsi della valorizzazione, come abbiamo visto, l'inedita ampiezza della cooperazione produttiva, l'articolazione effettiva della giornata lavorativa sono ambiti ancora per molti aspetti inediti; per questo motivo rimettere il rapporto di produzione al centro dell'iniziativa politica è senza dubbio un impegno di lunga durata; ma solo tale pratica e conoscenza può consentire la politicizzazione delle culture locali, la concreta possibilità che assumano un tratto aperto e tollerante, rispettoso dei diritti delle altre culture..

J. Rifkin, L'era dell'accesso, Arnoldo Mondatori, Milano 2000.



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