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Intervista ad Antonio Pascale

di Michelangelo Cimino


Il primo elemento di curiosità che balza agli occhi a chi si appresti a leggere l'antologia eiunaudiana è costituito dal titolo: Disertori. Intanto, potremmo chiarire subito se per quanto ti riguarda è una sintesi riuscita.

Se ho ben capito, il titolo dell'antologia fa riferimento al fatto che nell'immaginario collettivo il Sud rappresenta una sfilza di luoghi comuni. E dunque il tentativo è quello di partire dalla loro distruzione, affrontando le nostre (di noi scrittori) specifiche conoscenze ed esperienze. Poi nei dieci racconti antologizzati, è chiaro che ognuno parla per sé.

Ma la difficoltà in un'operazione del genere consiste proprio nel trovare una definizione che possa calzare a tutti gli scrittori...
Già. E del resto un'antologia non deve definire tutto sotto una stessa voce. Il bello di un'antologia è che i generi che essa contiene sono complessi. Invece i Disertori sembra una sorta di etichetta buona per tutti.

Beh, potrebbe significare anche un abbandono, più o meno metaforico, del luogo di nascita.

No, veramente non credo si arrivasse a questo. Si partiva soltanto dalla voglia di distruzione dei luoghi comuni.

Se è così la scelta non sembra davvero tra le più azzeccate - anche perché la maggior parte di essi sono stati ampiamente superati.
Il problema è che nessuno lo sa ancora. Le riviste che hanno smontato con pazienza e dedizione i luoghi comuni sul Sud sono lette soltanto dagli addetti ai lavori. Credo che quest'opera di revisione ancora non sia entrata nella testa della gente.

E dunque, dal tuo punto di vista, che cosa occorre fare?

Io credo che basti raccontare. Non credo invece che si debba raccontare del Sud o il Sud. Ma si racconta sempre attraverso qualcosa. Nel mio caso io posso raccontare un luogo che conosco bene; e raccontandolo non devo neanche far teoria. Tutto cioè deve essere accidentale. Se raccontassi il Sud perché me lo sono imposto, credo che sarebbe meglio dedicarsi a scrivere un saggio. Invece racconto semplicemente ciò che ho sentito e ho visto.

C'è anche un secondo livello di lettura, per così dire, del termine diserzione, suggerito dalla curatrice Giovanna De Angelis. Gli scrittori meridionali antologizzati, appartenenti alla generazione degli anni Novanta (è una categoria da evitare, ma serve ad esemplificare il discorso), sono in un certo egual modo distanti sia dal meridionalismo post-bellico (del riscatto civile, morale ecc.); sia da un altro meridionalismo, che peraltro nasconde molti elementi di verità, invalso da qualche tempo di considerare il Mezzogiorno un luogo della diversità. Essi invece descrivono (non in modo asettico, beninteso, ma partecipato) semplicemente la realtà che hanno sotto gli occhi...Ti ritrovi in questa descrizione della tua arte?

Qui si può discutere: perché il concetto di "diversità" mi può anche andare bene. Invece non mi va affatto bene la categoria dell'eccezionalità : sembra che ogni cosa che accade al Sud sia eccezionale, diventi simbolo di una condizione universale. Io penso che questo non vada più bene. Il Sud è molto frastagliato: Caserta non è Napoli; il Cilento non è la Piana del Sele. Ed è questa realtà che bisogna raccontare, senza farne una condizione universale, senza trasfigurarla più di tanto.

A noi invece sembra che parte dei racconti antologizzati (Pascale, De Silva, Calaciura, a modo suo anche Cappelli) richiamino proprio alcune particolarità del nostro Mezzogiorno, così come si è venuto configurando nel decennio passato: depoliticizzazione diffusa, e abbandono da parte della politica, nuove e vecchie povertà, sbandamento, tentativi di rinascita, riusciti e non, un'apparizione fugace della società civile all'inizio del decennio, poi subito rientrata ecc. Una delle particolarità dell'antologia forse consiste nell'aver liberato alcuni personaggi, semplici fra i semplici, dalla condanna che l'appartenenza di classe una volta avrebbe impresso sulla loro pelle: povertà o emarginazione non fanno più rima con rozzezza o miseria morale (a tale riguardo, non vi è esempio più illuminante della prostituta Gemma di Diego de Silva). Sei d'accordo?

Sì, anche perché sono per la contaminazione degli stili. Nel senso che in Italia il povero è trattato in modo un po' buffonesco; mentre più si va avanti più aumenta la dignità del tragico. A me invece piace invertire: nei miei racconti descrivo personaggi frastagliati, polivalenti, drammatici.

Quest'ultimo è il registro che preferisci ?

Senza dubbio. Per tanto tempo ho apprezzato la commedia ; poi però ho capito che un po' mette in luce i difetti e un po' li fa apprezzare. Il furbetto, lo condanniamo e contemporaneamente lo assolviamo.

Il racconto che apre l'antologia, il tuo Bei giorni domani, detto in estrema sintesi è la storia di un padre che per troppo lavoro (i sacrifici al limite del collasso psico-fisico servono per rincorrere gli standard di benessere che soprattutto al Sud sono ancora simbolo di status?) si ritrova isolato dalla famiglia, e lontanissimo dal comprendere quanto accade al suo unico figlio maschio. A chi hai voluto parlare (o alludere) con questo racconto dal finale a sorpresa?

Semplicemente alla coscienza. Ovvero alla mancanza di essa. Ciò si potrebbe collegare a quanto dicevamo prima: mancando una caratteristica di universalità, ormai, il Sud ha perso la coscienza di sé, sia per quanto riguarda il particolare che l'universale. Questo è un racconto che parla di una mancata presa di coscienza. Non è un racconto sulla camorra; cosa che a me non interessa. Qui si parla di due tipi di morale. Quella del padre e quella del figlio. E non credo che la prima sia migliore della seconda. Il padre fa una vita di merda; e vuole continuare a farla per dimenticare quello che gli succede intorno. In questo non è molto diverso dal figlio - che comunque era predestinato a fare la stessa, terribile vita.
Tutto sommato, però, la solidarietà va al padre: per la sua onestà, se non altro.

E però sembra che nonostante tutto la vita che conduce lo appaghi. Perché?

Per i soldi, credo. Perché è quello con cui è cresciuto. E' abbastanza stimato, è una brava persona: e questo gli basta. Lui non ha bisogno d'altro che di quel po' di onorabilità quotidiana.

Certo, questo aspetto in effetti traspare dal racconto; ma si capisce anche che la sua è una onorabilità quasi posticcia, una sorta di maschera.

Infatti, lo vedi quando arriva il dolore per la morte del figlio; lui non cerca di capire cosa è successo. Cerca di far slittare il problema all'angolo, pur di non prenderne coscienza. Altrimenti significherebbe far crollare tutta la sua vita. Non riesce nemmeno a capire il dolore di sua moglie: perché è chiuso nel suo e non riesce a comunicarlo.

Il rischio - non sapremmo come definirlo altrimenti -, per uno scrittore nato nel Mezzogiorno è quello di lasciarsi rinchiudere nel recinto della "tipicità". E specialmente quando egli tenta in tutti i modi di evaderne - magari ricorrendo ad una caratterizzazione universalistica dei personaggi. Ma esistono anche scrittori affascinati dalla unicità delle proprie origini, cui rimangono aggrappati come a qualcosa di prezioso. Non occorre richiamare la spersonalizzazione indotta dalla globalizzazione per rendersene conto. Per quanto ti riguarda quale rapporto intrattieni con il tuo passato familiare, sociale ecc.

Io appartengo a quella categoria di persone che hanno odiato molto il Sud, il suo carattere più volgare, laido, superficiale. Quindi, me ne sono andato in silenzio. E infatti soprattutto quando scrivo avverto un contrasto di voci: non so se amarlo, odiarlo o se ne sia ossessionato. Nel senso di desiderare che sia più ricco; che le sue potenzialità vengano sfruttate al massimo. Insomma il mio è un continuo barcamenarsi sul passato e sul futuro. Su quello che si è stati e quello che si vorrebbe essere. Ma credo che questo contrasto sia importante; serva per non ghettizzarsi.

A parte la polemica riguardante l'appartenenza del Mezzogiorno alla cultura espressa dall'Occidente capitalistico (polemica tutto sommato per addetti e priva di agganci reali con la realtà concreta), tu ritieni che essa sia in qualche modo giustificate da tendenze generali nella letteratura o sia frutto di meri contrasti accademici ?

Guarda, un'assistente di Franco Cassano disse a Serge Lautouche che lei preferirebbe di gran lunga abitare in Danimarca che nel Maghreb. Io sono convinto che ha detto una semplice verità. Francamente, non credo molto in Cassano: mi è piaciuto il primo libro, poi ho capito che quella strada poteva essere pericolosa. Non mi piace molto neanche Mario Alcaro: non penso che occorra recuperare il pianto rituale... Ma per farne cosa? Come estrapolarlo dal rapporto che aveva con le società di cinquant'anni fa ? E' una cosa che non riesco a capire fino in fondo. A me invece interessa il conflitto con la modernità.



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