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Scuola: riflessioni impopolari su una riforma (liberal) popolare

di Massimo Pierro



Un'indagine dell'ISTAT sul processo di riforma della scuola, di cui ha dato notizia il quotidiano "La Repubblica" il 4 aprile 2000, ci informa che sei italiani su dieci giudicano positivo il cambiamento. Poiché faccio parte dei rimanenti quattro, poco portati a celebrare "le magnifiche sorti e progressive", proverò a evidenziare alcuni nodi problematici, a costo di apparire ipercritico; raccolgo in ciò anche opinioni diffuse tra gl'insegnanti che hanno scioperato e manifestato il 17 febbraio per protesta contro il cisiddetto "concorsone", infatti in quell'occasione una parte considerevole del corpo docente non solo ha inteso contestare l'impostazione data al problema della rivalutazione della professione, ma ha anche manifestato il proprio disagio sulla natura delle riforme in corso. Esprimerò quindi brevemente qualche rilievo e perplessità su un processo ormai avviato e i cui primi risultati già cominiciano a vedersi, ancor prima che entri in vigore l'autonomia scolastica.
Mentre sto scrivendo queste righe, il mio istituto, come tanti altri a Roma, è teatro di una singolare occupazione: è stato infatti trasformato in dormitorio per ospitare i partecipanti al giubileo dei giovani; liberate dal centralismo ministeriale, le scuole sono ora assoggettate all'interventismo dell'ente locale, a sua volta orientato da calcoli elettorali e da subalternità nei confronti dei poteri forti (in questo caso il Vaticano).
Nel mese di luglio si è appreso che la Regione Piemonte ha istituito corsi (per ora facoltativi) lingua piemontese, facendo selezionare all'uopo cento insegnanti dalla Consulta per la Lenga Piemontèisa; mentre la Regione Lombardia ha deciso di finanziare le scuole private con un buono scuola per le famiglie ricche. Il Parlamento ha poi inserito in ruolo gli insegnanti di Religione, che saranno - come prima - scelti dalla curia, ma sicuri d'ora in poi di un impiego statale, a spese dei contribuenti, anche in caso di revoca.
Comprendo ora perché oltre il 68% dell'elettorato del Polo è d'accordo con le riforme (ce ne informa la stessa indagin e Istat prima citata): esse costituiscono il quadro legislativo all'interno del quale potrà svilupparsi agevolmente l'iniziatva di sostanziale privatizzazione della scuola pubblica, patrocinata dai loro partiti di riferimento.
Sotto le vesti seducenti di slogan quali "una scuola a misura di studente", "libertà di scelta per famiglie", ecc. ecc., è avvenuto in questi anni (incentivato da scelte politiche e legislative) un significativo spostamento di accento nella considerazione dell'istruzione da diritto costituzionalmente garantito e tutelato, che obbliga la Repubblica ad istituire sul territorio nazionale scuole statali di ogni ordine e grado (art. 33), e a rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l'eguaglianza dei cittadini (art. 3), essa è divenuta una merce, sul mercato a disposizione del cliente, che viene invitato a farsi la scuola secondo i propri gusti del momento: anche il linguaggio si è modificato, a sottolineare il cambiamento: gli istituti si mettono in concorrenza fra di loro, gli studenti stipulano un contratto formativo con l'istituto cui si iscrivono, le sufficienze sono diventate crediti, le insufficienze debiti, si sono introdotti bonus, si recupera il debito, ogni scuola presenta il proprio piano dell'offerta formativa: con felice espressione Claudio Magris (su "La Repubblica del 18 febbraio) ha chiamato tutto questo l'aziendalismo universale. Questa concezione mercantile orienta ormai sempre più famiglie, che il più delle volte scelgono l'istituto per i propri figli facendo riferimento non al livello dell'istruzione fornito (i cui dati sono pubblici, articolati nei risultati delle prove finali e nella percentuale di dispersione), ma all'insieme dei "ricchi premi e cotillons", che da alcuni anni, per evidenti ragioni di sopravvivenza, gli istituti stessi mettono in opera (leggere, credere, i vari "piani dell'offerta formativa"). La verità è che la formazione è un valore soltanto per quelle famiglie che hanno già un livello culturale medio-alto. altrove prevalgono logiche utilitaristiche e/o puramente consumistiche: è quella che ho chiamato "la metalità del cliente". E' questo il risultato acquisito dalla "competitività" fra istituzioni scolastiche, tra cui la popolazione si autoseleziona. Il meccanismo automatico del mercato riproduce così, e anzi rafforza, le diseguaglianze culturali e sociali di partenza. Rimango convinto, con Keynes, che la smithiana "mano invisibile" è invisibile perché non c'è, e l'adozione di criteri mercantili nel campo dell'istruzione (anche e soprattutto quando viene socialmente condivisa, proprio da quelle frange della popolazione più bisognose di una formazione culturale) comporti nel tempo un degrado dell'istruzione stessa, divenuta nel frattempo una merce fra le altre.
La stessa autonomia delle istituzioni scolastiche si rivela strumento ambivalente: se rettamente usata dai collegi dei docenti, può senza dubbio prestarsi ad operare dei significativi miglioramenti nella qualità dell'istruzione; ma può egualmente produrre disintegrazione e disuguaglianza, laddove prevalgono logiche di subordinazione ad esigenze estranee alla formazione stessa. (Intanto per bocca di Montezemolo la Confindustria ha reso noto agli insegnanti in una trasmissione RaiSat dedicata al nuovo esame di stato, a cura del MPI che oggi ai giovani "flessibili" serve la magica accoppiata inglese+computer, il resto è inutile vecchiume.
Il sostanziale abbandono dell'obiettivo di usare la leva scolastica per ridurre le disuguaglianze, a favore di un adeguamento immediato alle esigenze del mercato del lavoro, si accompagna alla subalternità ai veri e propri diktat che sono venuti a più riprese dalla Curia vaticana, che, con spirito mercantile e in unità d'intenti non casuale cone le tesi più liberiste provenienti da ambienti (conf)industriali, ha richiesto e ottenuto finanziamenti pubblici per le scuole private. La legge di parità, votata il 3 marzo 2000 dal Parlamento, mentre vuol adempiere all'obbligo costituzionale previsto dall'art. 33, inserisce le scuole private paritarie nel "sistema nazionale dell'istruzione", ed assegna loro una "funzione pubblica", impossibile da assolvere, in quanto scuole di tendenza.
Grazie a questa legge, le Regioni soprattutto finanzieranno a piene mani le scuole private, religiose e non, come ha già fatto la Regione Lombardia; ma nel riconoscimento della cosiddetta "funzione pubblica" delle scuole private la regione all'avanguardia si è da tempo dimostrata l'Emilia Romagna, che ha giocato d'anticipo, costringendo in alcune zone i genitori a servirsi obbligatoriamente di asili privati per i propri bambini, già negli scorsi anni scolastici.
Come si vede, anche l'obiettivo di una formazione omogenea sul territorio nazionale viene sacrificato non solo a localismi e particolarismi, ma ad una valorizzazione dell'educazione di tendenza (il cosiddetto progetto educativo d'istituto, di cui parla l'art. 3 della legge), non si tratta qui per gli istituti scolastici di attuare creativamente un progetto educativo nazionale, per renderlo il più possibile adeguato alle esigenze del territorio, ma di differenziare il progetto educativo stesso, in modo da adeguarlo alle cosiddette richieste dell'utenza (sia essa un'industria o una comunità qualsiasi), di cui è chiamato a rispecchiare e riprodurre ideologie e valori; il pluralismo culturale che caratterizza ancora la scuola pubblica tende invece ad essere considerato quasi un disvalore. Ne viene snaturata l'intera concezione dell'istruzione pubblica, come prezzo necessario da pagare, per poter aggirare la Costituzione e soddisfare le crescenti esigenze economiche del Vaticano
E' stato detto che con questa legge lo Stato mette il naso per la prima volta nel fangoso arcipelago delle scuole private; è vero, ma con quali armi? La differenziazione come valore, sancita dall'assegnazione della terza prova scritta dell'esame di stato ai singoli istituti, costituisce un'eccellente ciambella di salvataggio per gli esamifici; e il meccanismo di recupero del debito consente di ricostruire i percorsi scolastici sì da trasformare in studente modello qualsiasi citrullo con portafogli ben fornito. Se nonostante tutto ciò le scuole non statali riescono a diplomare meno del 90% (sic!) dei loro candidati questo la dice lunga sul livello d'istruzione da esse impartito.
Vengo ora a parlare dell'esame di stato, cronologicamente la prima delle riforme dell'era Berlinguer: si è cominciato dalla coda, invece che dalla testa; ma di ciò poco importa, perché il vecchio esame di maturità, la cui provvisorietà era ormai antica di circa trenta anni, obiettivamente reclamava di essere sostituito al più presto. Si è contato, da parte ministeriale, sull'effetto di retroazione: l'obbligo da parte dei Consigli di classe di adeguarsi alla nuova normativa avrebbe comportato e così è stato la necessità di ridefinire metodi e contenuti dell'intero iter scolastico. In quest'opera di ridefinizione e di ricostruzione si è però scelto, fra le tante alternative possibili, di ispirarsi a tecniche di valutazione (fra cui i famigerati quiz) tipiche della docimologia di origine anglosassone (quello che noi insegnanti usiamo chiamare "il didattichese"), epistemologicamente peraltro alquanto ingenue nella loro pretesa di "oggettività" e nell'effettiva capacità di misurare "conoscenze, abilità e competenze" (ma cos'altro ha fatto sinora un'intera generazione d'insegnanti? Ha scherzato?). Ci viene proposta come modello la scuola di questi paesi, proprio nel momento in cui è chiaro la loro prima di tutto il fallimento di quel sistema educativo (leggere l'ultimo libro di Bruner, ma anche un conservatore come Huntington sostiene la necessità di un profondo ripensamento, dai i disastrosi risultati conseguiti). Il tentativo di sostituire il tecnicismo quantificatore di matrice positivistica al vecchio "umanismo" di stampo idealistico non mi sembra capace di portare ad effettive innovazioni; la dimensione ineliminabilmente soggettiva della valutazione, ignorata e non più sottoposta ad autocontrollo deontologico, produce soggettivismo della peggiore specie, nascosto dalla presunta "oggettività" delle prove somministrate. Senza contare l'indifferenza verso i contenuti formativi, spesso mostrata dagli ispettori ministeriali, nel magnificare la "nuova" didattica. A questo proposito, la necessità di sostenere una prova finale su tutte le discipline sta già comportando nei libri di testo rinnovati una semplificazione spesso banalizzante, con frasi precostituite per essere immediatamente riportate in ipertesti, a scapito della problematicità intrinseca ad ogni disciplina. Ovviamente ogni testo è accompagnato da un CD-rom, a comprovare la sicura "modernità" dei contenuti. Se l'intento voleva essere quello di portare ad una maggiore serietà nello studio, occorrerà allora ripensare fini e metodi, proprio alla luce dei primi risultati raggiunti. Il record di promossi (96,3 %) all'esame di stato in quest'anno scolastico mi sembra sia dovutpùo più alla generosità dei meccanismi di recupero del debito formativo e alla disparità delle terze prove che ad un effettivo miglioramento nella qualità della preparazione.
Ho lasciato per ultima la riforma dei cicli: per ora c'è solo un contenitore da riempire di contenuti culturali. Siamo in attesa dei risultati dei lavori della Commissione insediata dal nuovo ministro De Mauro; è certo però che scomparirà un anno nella formazione (7+5 invece che 8+5); sono sicuramente poco informato, ma mi era sfuggito che in Italia ci fosse un eccesso di istruzione. Pare che il sacrificio sia reso necessario dalla necessità d adeguarsi al resto dell'Europa; non vedo però la ragione di seguire gli altri paesi in questo campo, e non, per esempio, nell'aumento della spesa sociale, o negli stipendi degli insegnanti. Comunque sia, mi sembra inevitabile che ad un anno di meno (di scuola e di età) corrisponda un abbassamento nel livello d'istruzione media, soprattutto a livello delle capacità critiche degli alunni.
Come si vede, la situazione è alquanto problematica, e non si presta a trionfalismi; convengo che la scuola pubblica ha bisogno di profonde innovazioni; ma dubito che quella intrapresa sia la strada più giusta: mi sembra invece complessivamente segnata da subalternità a una logica catto-liberista, a cui non si è saputo (o voluto) opporre un'idea forte e alternativa a logiche di mercato.



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