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Per la critica della razionalità acquisitiva e per un partito-progetto sovranazionale

di Giuseppe Prestipino



Cantillo coglie nel segno quando afferma che le tendenze all'esercizio del potere fine a se stesso sarebbero meglio raffrenate da una politica come progetto che non dall'odierno ripiegare sulla politica come amministrazione . Ma per qual ragione è in crisi la politica e, in specie, il partito come soggetto politico collettivo? Il partito è come un albero le cui radici affondano nella società e i cui rami si espandono nelle istituzioni dello Stato rappresentativo (e qui non interessa se vi si espandono come proposta di governo o come protesta di opposizione). L'albero deperisce se lo Stato cede ad altri soggetti - centri di potere sovranazionali non vincolati da controlli democratici - parte della propria sovranità, o del proprio autonomo potere di legiferare sui processi economico-sociali, e se si illude di poter riguadagnare la perduta capacità di governo sul paese a scapito del carattere democraticamente rappresentativo delle istanze elettive (per intenderci: se la legge elettorale proporzionale diviene il capro espiatorio di colpe non sue). L'albero deperisce anche perché, dal basso, le radici non assorbono la linfa e l'humus vitale dei quali, per sua natura, l'albero ha bisogno: in altri termini, se la società nel frattempo subisce rapide modificazioni, facendosi più complessa e/o più frammentata, anche per effetto di quegli stessi processi che limitano la sovranità degli Stati-nazione o che dilatano la supremazia dei centri di potere globalizzato. Cantillo osserva opportunamente che la società civile organizzata non è certo migliore della società politica . Superare la forma-partito quale sopravvive ancor oggi è, come auspica Cantillo, necessario; ma il rimedio da lui proposto potrebbe essere, voglia scusarmi, peggiore del male, in specie se mirasse all'aggregazione confederativa (o finanche unitaria) del cosiddetto centro-sinistra . Ritengo invece che debbano essere soddisfatte due condizioni preliminari: 1) il nuovo soggetto politico o partitico dovrebbe confrontarsi con una (ancora inattuata) statualità oltrepassante lo Stato-nazione, ossia dovrebbe costituirsi, almeno, come soggetto europeo; 2) nello stesso tempo, dovrebbe conservare la memoria della propria identità storica, o delle sue origini, perché senza una tale memoria genetica non si costituisce alcun organismo vivente. Infatti, anche il cosiddetto valore aggiunto di una coalizione non promana dallo sbiadire i partiti che vi confluiscono (il caso Lombardia insegni, nelle ultime regionali), ma dal valorizzare le loro distinte visibilità pur nella convergenza non effimera su un programma comune. Cerco di spiegarmi meglio. Che oggi non si parli più di unità politica dei cattolici è un fatto positivo. Ma non si dimentichi che l'unità politica dei cattolici risale, almeno come auspicio, alla formazione dell'unità d'Italia e persino al neoguelfismo. Sarebbe perciò prematura un'organica confluenza di tutti i cattolici democratici in una indifferenziata formazione di centro-sinistra, anche se in essa i cattolici democratici dovessero conseguire l'egemonia, per effetto di un sistema bipolare che, per sua natura, tende a valorizzare il centro. Pagherebbero uno scotto sia il centro cattolico progressista sia la sinistra riformista . Considerazioni analoghe varrebbero per la sinistra antagonista (che, in un'ipotetica commistione con l'altra perderebbe e farebbe perdere). Il radicalismo di un interlocutore antagonista, peraltro, è oggi nelle cose, perché la globalizzazione compiuta del capitale e il conseguente moderatismo accentuato dei riformisti dovrebbero essere bilanciati, in altri partiti o movimenti della sinistra, da un di più di critica o di rifiuto (forse Seattle non è un fatto episodico). Infine, è vero che oggi etica pubblica e morale privata tendono a omologarsi sulle categorie dell'economia, della redditività a ogni costo , come scrive Cantillo. Ed è vero che la domenica della vita non differisce più dagli altri giorni (qualcosa di simile ho osservato anch'io in un mio libro recente). Leggo tali fenomeni come il segno della trionfante razionalizzazione che, muovendo dalle innovazioni scientifico-tecnologiche, plasma i mondi sociali come un solo mercato mondiale. Nel nostro tempo, infatti, economicità onnipervasiva sta per razionalità livellatrice in funzione di un'efficacia sempre maggiore nel subordinare al "calcolo" acquisitivo ogni altra sfera di azione. E domenica della vita sta, invece, per una condivisa irriducibilità dei valori etici. Può riuscire utile uno sguardo retrospettivo. Il '68 prefigurava, con intuito critico, l'odierna fase di rivoluzioni scientifico-tecnologiche intensificate e ravvicinate, nella quale chi più sa ha più potere e chi sa meno ha meno potere. Ma l'antiautoritarismo salutare del '68, anche per la motivata ripulsa del socialismo reale , o del suo dispotismo, sconfinava nell'anti-Stato e perciò quasi predisponeva, nolente, all'odierno neoliberismo generalizzato (la sostituzione, già nel '68 di il personale è politico con il privato è politico conteneva in nuce anche l'ideologia delle privatizzazioni?). Pasquale Voza, in un suo volumetto sul '68, aggiunge che la tacita conversione, nel '77, della formula sessantottesca il quotidiano è politico nella parola d'ordine incitante alla socializzazione del quotidiano propiziava forse, suo malgrado, l'odierna società depoliticizzata. E, osservo, l'apologia del non lavoro, a sua volta, spianava forse il terreno all'odierna mistificante contrapposizione tra i lavoratori garantiti e i non garantiti. Eppure anche il '77 ha avuto intuizioni felici: ad esempio, quando ha prefigurato un possibile alternativo dei (nuovi) mezzi di comunicazione di massa. Peraltro oggi, al riguardo, il nostro nuovo interrogativo è: come ottenere che essi siano, appunto, mezzi e non fini?



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