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Gli intellettuali calabresi nella rivoluzione del 1799

di Spartaco Pupo


Alla Rivoluzione partenopea del 1799 aderirono, sulla scia degli eventi tumultuosi di Napoli, tutte le province del Regno. Nei centri periferici, dal più piccolo al più popoloso, i sostenitori del movimento repubblicano, giacobino e riformista davano vita, innalzando "l'albero della libertà", ai governi repubblicani, nuove municipalità che dovevano rappresentare il compimento del processo di democratizzazione e la messa in pratica degli ideali di libertà ed uguaglianza provenienti d'oltralpi.
In Calabria, una delle province più povere del Regno, le ragioni politiche, sociali, economiche e culturali della Rivoluzione erano più evidenti che altrove, per le malversazioni legate al vetusto ma ancora vivo sistema feudale e per il devastante terremoto che nel 1783 aveva sconvolto l'ordine naturale della zona centro-meridionale. E' davvero stupefacente scoprire che anche in una terra come questa misera, lacerata nel suo tessuto sociale ed economico, senza giustizia e opportunità di tipo educativo circolavano idee, pensieri politici, filosofie, fermenti culturali che successivamente esplosero nel 1799, per opera di illustri e colti scrittori, dalle cui penne nacque la Rivoluzione, la speranza del riscatto, dell'uscita subitanea da una situazione stantia.
Alla fine del '700 gli intellettuali meridionali prendevano ormai atto della totale inadeguatezza delle strutture politiche, economiche e sociali del regime feudale a reggere l'urto della modernizzazione. Genovesi, Filangieri, Pagano, Russo riflettevano sulla possibilità di adottare nuove forme di governo, disegnavano scenari di rappresentanza politica che potessero far superare al Regno l'indigenza della stragrande maggioranza della popolazione. Dalle letture condotte, quasi sempre segretamente, dai giacobini napoletani, usciva la forza del messaggio utopico dei Rousseau e dei Mably, che legava la denuncia dell'ancien règime ai nuovi dogmi politici dell'uguaglianza, la democrazia, i diritti del cittadino.
Le letture dei pensatori europei, da parte dei giovani calabresi, iniziarono solo intorno agli anni '60. Andavano per la maggiore le opere di grandi filosofi come Locke, Newton, Spinoza, e soprattutto Leibniz, del quale venivano trascritte le affermazioni contenute nella Teodicea. Tali letture, nonostante avvenissero quasi esclusivamente in ambito ecclesiastico, cioè nei monasteri, nelle scuole cattoliche (dove ad insegnare erano monaci e preti impegnati nel puro scolasticismo e ad erudirsi erano i figli della borghesia), servivano comunque ad avviare il processo di rinnovamento che si ebbe compiutamente negli anni a venire e soprattutto ad imprimere un duro colpo al modo di produrre cultura di quei dotti arroccati nelle loro accademie. Nelle poche scuole della Calabria, per tutta la seconda metà del '700, alcuni maestri che si erano formati nell'ambiente culturale di Napoli e che avevano deciso di tornare nella terra d'origine iniziarono a far circolare opere che trovarono gradualmente l'interesse dei giovani, determinando in tal modo il menzionarsi di testi sino ad allora sconosciuti perché gelosamente custoditi da pochi dotti e galantuomini.
Due tra i maestri calabresi più lungimiranti e volenterosi di far conoscere ai discepoli qualche opera nuova, che richiamasse principi moderni, furono Alessandro Marini (1733-1796) di S. Demetrio e Antonio d'Aronne (non si conoscono con precisione le date di nascita e morte) di Morano, nel castrovillerese, che era stato allievo del Vico. Entrambi, più che per i loro scritti, che toccavano temi considerati ormai antichi, erano da apprezzare per la capacità di aprirsi alla modernità delle forme di insegnamento, al dialogo con gli alunni, lasciando a questi ultimi la possibilità di esprimersi con giudizi critici su argomenti, sino a quel momento per nulla trattati, riguardanti il diritto o le nuove regole della grammatica.
Accanto a questa attività riformistica dei modelli educativi vi era quella, meno moderata, degli spiriti che possono tranquillamente essere detti "illuminati". Se si considera illuminato, infatti, il pensiero di un Antonio Genovesi, è legittimo osservare che alcuni influssi illuministici si ebbero anche in quegli studiosi calabresi formatisi alla scuola del filosofo napoletano o dei suoi allievi.
Tra questi sono da ricordare i fratelli Francesco Antonio e Domenico Grimaldi, di Seminara, che si batterono alacremente per la soluzione dei problemi economici della loro terra, soprattutto della classe contadina. Francesco Antonio (1741-1784) era filosofo e giurista, ricercatore di storia, nonché grande appassionato del pensiero di Condillac e Montesquieu. Opera filosofica è quella stampata a Napoli tra il 1779 e il 1780, in tre volumi, dal titolo Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, in cui si rintracciano interpretazioni su Rousseau, la cui fortuna in Calabria, almeno fino alla fine del '700, fu assai scarsa, per non dire inesistente.
Il fratello di Francesco Antonio, Domenico (1735-1805), si distinse per opere che, sull'esempio dei pensatori napoletani, proponevano riforme nella pratica utilità del lavoro, vedevano nella natura la salvezza del male umano e nell'agricoltura la vita della Calabria e del Mezzogiorno d'Italia. E' del 1770 il suo Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra, con cui mise in luce la profonda arretratezza dei settori economici della provincia, proponendone i rimedi. Una sua memoria circa un tipo di erba calabrese, detta sulla, ricevette il plauso delle società di agricoltura di Parigi e di Berna e meritò di essere stampata a spese dei Georgofili Fiorentini.
Negli anni '70 fecero ritorno in Calabria molti giovani avvocati, medici, letterati, che avevano studiato a Napoli e poi scelto di dedicarsi all'insegnamento. Uno dei più promettenti fu senz'altro Pietro Clausi (1743-1829), docente di filosofia e matematica nella scuola regia di Cosenza e maestro di F. S. Salfi. I suoi alunni studiavano l'empirismo di Locke, leggevano le opere di Helvetius, La Mettrie, Condillac, si accostavano agli ideali degli enciclopedisti e in modo particolare al pensiero politico-giuridico di Voltaire e Montesquieu, le cui opere cominciavano a circolare grazie al lavoro di traduzione dal francese, come quello portato a termine dal Genovesi per l'Esprit des lois. Dalla scuola dei professori come Clausi, cultori del pensiero dei philosophes, usciva una generazione di giovani intellettuali finalmente aperti al cambiamento e capaci di argomentazioni nuove, tali da poter essere definite illuministiche e riformatrici della società. A questa generazione di professori appartenne anche Gregorio Aracri (1749-1813 ) di Stalettì, che vale la pena di citare per i suoi Elementi del diritto naturale (Napoli, 1787), opera di filosofia giuridica.
I due più grandi esponenti della cultura calabrese di fine secolo furono Antonio Jerocades (1738-1803), di Parghelia (Cz) e Francesco Saverio Salfi (1759-1832), di Cosenza.
Amico dei fratelli Grimaldi, i quali gli fecero conoscere le opere di Genovesi, Jerocades fu abate e nello stesso tempo banditore delle idee della Massoneria. Per questo venne definito "l'abate-massone". In un'opera giovanile, il Saggio dell'umano sapere ad uso dei giovanetti di Paralia (1768), Jerocades invitava i giovani a non lasciarsi trascinare dalla pedanteria dominante, dalla morale casistica e dalla grammatica formale, che erano solo "erculee colonne [...] piantate a vista della gioventù studiosa per fare che sbigottita volga indietro il cammino".
Nel Saggio è presente un vero e proprio inno alla natura, sottolineato, tra l'altro, anche da B. Croce. Esiste, secondo Jerocades, un sapere umano e un sapere divino: il primo si pone sul piano della natura, perché nasce dalla ragione; il secondo, che deriva dalla rivelazione, rimane nella sfera della grazia.
Ma la vera battaglia dell'abate di Parghelia fu quella combattuta per la riforma della scuola: un'istituzione importante come questa, non poteva restare slegata dalla realtà economica e sociale né doveva impartire insegnamenti astratti e meramente nozionistici. Il Saggio si presentava come una forte opposizione alla vecchia concezione della scuola, della cultura in generale e conseguentemente proponeva una pedagogia ed una didattica che per l'epoca non potevano non essere viste come rivoluzionarie. La scuola, secondo Jerocades, doveva affrontare temi pratici e moderni. Per queste sue idee Jerocades subì il carcere, l'esilio, oltre che la censura da parte del vescovo di Sora. Morì nel 1805 nella casa dei Padri Liguorini di Tropea, dove era stato rinchiuso per punizione.
Impegnato come Jerocades nelle vicende politiche ed ideologiche del suo Paese, fu Francesco Saverio Salfi, il più noto degli illuministi calabresi. Aspirava al sacerdozio ma trovò sin dall'inizio gli ostacoli di autorevoli ecclesiastici, i quali, conoscendo il genere di letture a cui il giovane si dedicava e capendo subito di che pasta era fatto, non perdevano occasione per additarlo come un "infrancesato", un libertino, un pericoloso avversario della religione. Riuscì comunque a diventare prete, pur sapendo che la sua era una carriera destinata ad essere breve, attirato com'era dagli ideali rivoluzionari e animato da un profondo senso di critica verso la mentalità dei religiosi del tempo. Per queste sue tendenze ideologiche abbandonò molto presto gli abiti d'abate. Nel 1792 l'iscrizione alla Società Patriottica Napoletana gli costò l'esilio dapprima a Genova e successivamente a Milano. Morì a Parigi nel 1832.
Quella di Salfi era una mente letteraria, filosofica, scientifica, in una parola illuministica, com'è dimostrato dalla sua opera più importante, il Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, datato 1787, che andava ad inserirsi nell'acceso dibattito di quegli anni intorno ai danni provocati dal terribile evento sismico del 1783. Qui Salfi ripercorre gli anni della sua formazione culturale, non risparmiando critiche serrate verso le istituzioni educative della sua città. Si richiamava alla scienza dell'uomo e alla storia secondo i parametri dell'Illuminismo, per mezzo di analisi ricercate, giungendo dai progetti in quanto tali alla loro effettiva applicazione. Il che voleva dire: attuare le riforme.
Gli illuministi calabresi furono di enorme peso alla Napoli borbonica, a cui non piacevano le loro idee antifeudaliste e riformiste. Furono perseguitati e arrestati, ma quell'albero della libertà, simbolo di uguaglianza e democrazia, che erano riusciti idealmente a piantare, ha prodotto lo stesso i frutti che loro non avevano fatto in tempo a raccogliere.



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