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Economia-ecologia: un dialogo necessario

di Carla Ravaioli



L'effetto serra ci porterà sull'orlo dell'apocalisse; 'Dieci morti al giorno in Italia per colpa dello smog'. 'Un milione di tonnellate di rifiuti pericolosi a testa'. ' Il buco nell'ozono si allarga, Catastrofe ecologica: cinque milioni di litri di greggio si rovesciano nell'Iguazù'. 'L'incubo del deserto alle porte del sud mangiato dalla siccità'. Sono alcuni titoli colti a caso tra i tantissimi del genere, apparsi di recente con grande risalto sui giornali come "Il Corriere della sera", "La Repubblica", "La Stampa", "Il Messaggero", fogli al di sopra di ogni sospetto di estremismo politico o ecologico, i quali semplicemente non possono evitare di dare notizia di fatti sempre più numerosi e allarmanti che parlano di una crisi ambientale ormai gravissima e forse irreversibile. Non si può dire dunque che il problema sia noto solo a pochi specialisti. Ciò che d'altronde sarebbe davvero strano, trovandoci tutti - anche se non direttamente colpiti da alluvioni e desertificazioni - quotidianamente a confronto con gli effetti di un mutamento climatico da nessuno più negato, con l'aria sempre meno respirabile e il traffico sempre più inestricabile delle nostre città, con acque sempre più impure, con cibi transgenici, con abbronzature cancerogene, ecc. ecc. Non si può nemmeno sostenere che di tutto ciò siano ignote le cause. Gli scienziati, fino a qualche tempo addietro molto prudenti in proposito, oggi non hanno più dubbi, come a tutte lettere sostengono le più prestigiose riviste, da "Nature" e "Science": causa prima della rottura degli equilibri ecologici planetari sono le attività umane, e in particolare i modi e le quantità di produzione tipici delle società industriali. Di cui dunque il continuo e via via accelerato aumento non può che peggiorare la situazione. La cosa parrebbe ovvia. Ma così non è. O quanto meno così non appare a economisti, operatori economici di ogni tipo e grandezza, politici e governanti, responsabili delle strategie economiche di tutto il mondo. I quali per la grande maggioranza non sembrano nemmeno prendere in considerazione il rapporto tra due dimensioni così strettamente interconnesse come economia e ecologia, e continuano a impostare le loro analisi e le loro scelte attenendosi ai paradigmi economici tradizionali. Indicando la crescita produttiva come la soluzione di tutti i peggiori mali della nostra società, con maniacale insistenza incitando a spingere produzione, produttività, competitività, consumi, e a questi criteri condizionando l'opinione pubblica e i comportamenti di tutti. In qualche modo sembra insomma prodursi una sorta di cesura schizoide tra una ormai diffusa se anche incompleta e imprecisa conoscenza della questione ecologica, e la prassi che ne dovrebbe seguire. Al punto che gli stessi giornali da cui ho sopra riportato titoli a sensazione relativi alla più diversa fenomenologia del dissesto ambientale, con titoli altrettanto vistosi lamentano che il mercato dell'auto non "tiri" come si vorrebbe, che l'aumento del Pil italiano sia inferiore a quello degli altri paesi europei, che la domanda per consumi ristagni, che la crescita non cresca abbastanza. Nasce da queste considerazioni L'appello agli economisti, pubblicato il 15 giugno scorso su "Il manifesto" e "Liberazione", ripreso poi da "Carta" e "Aprile", e che riproponiamo su Ora locale . Lo firmano numerosi noti ambientalisti, ma anche molti intellettuali che non hanno mai coltivato in modo specifico la materia, che però sono fortemente preoccupati del progressivo deteriorarsi dell'ambiente e consapevoli dell'esigenza non più rinviabile di una correzione di rotta nell'impianto produttivo, nei suoi ritmi e nei suoi obiettivi. Finora la risposta da parte degli interpellati è stata piuttosto stenta. Dopo l'intervento di Lunghini, in sostanza d'accordo con le ragioni dei firmatari e giunto molto sollecitamente, e quello altrettanto sollecito ma schierato su posizioni opposte di Marano, si è registrato un lungo silenzio. Lo ha interrotto il pezzo di Bellofiore e Brancaccio, seguito a ruota dall'intervento di Ruffolo e da quello di Graziani: sostanzialmente favorevoli anche se con riserve i primi due, di decisa condanna il terzo. Una replica interlocutoria, di ferma e puntuale lucidità, firmata da Giuseppe Prestipino su "Liberazione", fa il punto sul dibattito. E per ora è tutto, a parte diverse e importanti promesse. Debbo dire che la cosa non mi stupisce troppo. Nel lontano 1992 intervistai un buon numero dei più prestigiosi economisti del mondo - ventotto per l'esattezza, tra cui sei premi Nobel - ricavandone un libro proprio su questa materia (Il pianeta degli economisti - ovvero l'economia contro il pianeta, Torino 1992). Già allora non riuscivo a spiegarmi la disattenzione e il silenzio della scienza economica su un problema come quello ambientale, che proprio nell'economia - o meglio, nell'economia industriale-capitalistica - ha le sue radici velenose. Ho trovato reazioni di tipo diverso, dal totale disinteresse per la materia, alla irremovibile sottovalutazione della medesima, ma anche una sincera preoccupazione. Qualcuno ha perfino ammesso che, sì, l'economia dovrebbe essere più sollecita della crisi ecologica, e studiarne soluzioni possibili. Ma il punto sul quale nessuno ha concesso nulla (a parte rare quanto ovvie eccezioni rappresentate da economisti ecologisti) è stata proprio la crescita: una categoria indiscutibile, quasi sacrale, da rispettarsi come un dogma di fede. Il che, nel caso di economisti politicamente collocati a destra, non sorprende. L'accumulazione è la base e il motore del sistema capitalistico, e accumulazione significa crescita: metterla in causa equivale a mettere in causa il modello socioeconomico da oltre due secoli vincente. Difficile pretenderlo da chi fermamente crede nella sua bontà. Ma gli economisti di sinistra? Perché anche per loro la crescita produttiva appare uno strumento irrinunciabile, da perseguire con così pertinace convinzione? A ben vedere, la spiegazione non manca. Il fatto è che per un lungo periodo della storia delle società capitalistiche la crescita produttiva ha oggettivamente migliorato le condizioni dei paesi industrializzati: sul piano alimentare, abitativo, igienico-sanitario, scolastico, di accesso a consumi non solo di prima necessità, e così via. E si spiega così la stessa evoluzione delle sinistre storiche, le quali, nel momento stesso in cui si proponevano di abbattere il capitale, andavano però facendo propri alcuni suoi valori di base, industrialismo, produttivismo, identificazione della crescita produttiva con il progresso, fino alla sostanziale piena assunzione del modello economico dato. Tutto ciò continua a vivere nella tradizione culturale e mentale delle sinistre, e poco o tanto continua a vincolare l'impegno di persone sinceramente sollecite del bene sociale. Continua, quantunque oggi la crescita produttiva - che pure ha raggiunto ritmi e dimensioni senza precedenti - nulla più garantisca di quanto dava il passato: il Pil aumenta ma la disoccupazione non diminuisce, il lavoro è sempre più precario e lo sfruttamento sempre più duro, crescono le disuguaglianze tra ricchi e poveri del mondo, in ambito internazionale come all'interno dei paesi più affluenti, mentre la crisi ecologica planetaria sta esplodendo. Non credo che la stenta risposta finora registrata al nostro appello debba farci desistere dal riproporlo. Anzi riteniamo il dibattito appena iniziato e siamo convinti che il contributo di voci come quelle che animano Ora locale possa essere decisivo.



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