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Dialogo e confronto con le realtà "altre" per valorizzare la nostra identità

di Francesca Rennis



Mentre il dibattito sul federalismo libera il desiderio di autonomia e la necessità di filtrare localmente i processi immanenti della globalizzazione, un'invasione silenziosa, ma piena di drammaticità avanza chiedendo speranza. La mediazione degli immigrati e dei nostri emigrati al nord e nel resto del mondo, che rappresentano ancora una realtà sommersa, di cui riusciamo ad accorgercene a sprazzi solo perché motivati da preoccupazioni di ordine economico o pubblico, può divenire una risorsa irrinunciabile e feconda di nuove prospettive di sviluppo per il Meridione. Respingiamo ancora ogni impulso al dialogo forse perché la loro presenza ripropone paure ataviche e sotto le sembianze di un'accoglienza improvvisata e cordiale nascondiamo solo indifferenza e perbenismo. Li vediamo, senza guardarli, all'angolo delle strade, ci facciamo chiamare "cugini", compriamo quello che ci offrono sulle spiagge e per le vie, le donne diventano amanti di sfuggita e riescono finanche a rispondere al nostro bisogno di assistenza domiciliare arrivando in massa, ma non sappiamo dove abitano, se hanno famiglia e cosa vogliono: l'importante è che agiscano entro i limiti tollerati di legalità, anche se non hanno permesso di soggiorno. Se diventano in troppi, poi, costruiamo dei ghetti dove, lodevolmente, vengono assistiti. Il sud che si appropria dei valori dettati dalle leggi del consumo e dell'efficienza non è ancora pronto ad un rapporto interculturale, improntato sui valori della pace, ma intanto dovremmo interrogarci, alla luce di quanto accaduto a Lodi e a Milano, sulle nostri possibili reazioni di fronte ad una probabile richiesta da parte degli islamici di costruire moschee. I nostri limiti e le nostre capacità di superarli, chiamati in causa da una tale richiesta, rispecchiano il volto della nostra identità.
I nostri livelli di accoglienza, purtroppo, sono ancora intrisi di idealismo, neutralismo e consensualismo, mentre le nostre forme di comunicazione riproducono in modo tautologico un orientamento verticalistico e autoritario. Basti pensare ai modelli di trasmissione del sapere scolastico e religioso.
Solo per il fatto che nelle nostre scuole non si dà spazio al pensiero divergente e nelle nostre diocesi divampano i congressi eucaristici, che accentuano il modello unitario del credo cattolico, mentre autorità ecclesiali come mons. Biffi, sostenuto dalle dichiarazioni di mons. Ratzinger, discriminano le possibilità di salvezza dei non cristiani, non vogliamo escludere la possibilità per coloro che ancora chiamano extra-comunitari di ricoprire ruoli non marginali nella nostra società.
Nel momento in cui ci apprestiamo a ridefinire e a comprendere la nostra identità forse dovremmo tener conto e autorappresentarci le nostre azioni e i nostri pensieri nei confronti di chi, carico di una vita insopportabile, decide di affrontare un'avventura che, forse, lo sappiamo porterà anche alla morte.
Di fronte a curdi, tunisini, slavi, indiani e polacchi operiamo un distinguo, vanto della modernità, che nasconde un paradosso: li chiamiamo profughi, derelitti, senza casa, extracomunitari, rifugiati politici, immigrati, dimenticando i diritti, anch'essi vanto della ragione moderna, a cui appellarsi in quanto persona.
Un gioco della ragione che, riferito all'uomo in carne ed ossa, assume le forme della disperazione.
Ma c'è di più: nel riflettere sulle nostre possibilità escogiteremo apprezzabili trovate per avanzare ai nostri emigrati all'estero proposte della serie "prossime elezioni", e, ancora una volta, piuttosto che costruire ponti saldi, invisibili ma ecocompatibili, verso l'umanità dimenticata dalle grandi distribuzioni, spenderemo le nostre energie, oltre che i capitali, a costruire un ponte memorabile, fragile e dalle sembianze mostruose, fra luoghi che già sono vicini.
Un'"umanità dimenticata", ancora sepolta nei meandri del nostro inconscio per l'incertezza, la precarietà, il dolore del distacco, la nostalgia, l'imprevedibile, la diversità. Per i nostri occhi, troppo abituati a cogliere i benefici della tecnica, la vita di questi uomini, donne e bambini costituisce la prova dello scandalo e del fallimento della modernità. Per un mondo caduto nelle reti della new economy e della tecnologia, fondato sugli ideali del liberismo economico, votato al conformismo e alla propaganda, questa umanità dimenticata rappresenta, ordinariamente, il luogo del riscatto, quella realtà residuale a cui attingere per recuperare la dignità di soggetti e l'idea interculturale, sostanziale, di pace.



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