Come crescere con cautela*
di Giorgio Ruffolo
Un incontro tra ambientalisti ed economisti? E' un'idea, quella di Carla Ravaioli e degli altri promotori dell' appello , bellissima: e io
sottoscrivo con entusiasmo. Temo però che non abbia molte più chances degli incontri tra palestinesi ed israeliani. Il fatto è che nei
due campi ci sono ancora troppi ultras. Tanti anni fa mi ci trovai, con timore e tremore, io stesso a sollecitarlo, quell'incontro,
almeno idealmente, in un libro. La qualità sociale, nel quale cercavo di spiegare che, oltre certi limiti, la crescita incontra rendimenti
decrescenti e costi crescenti. Ma prima e meglio di me altri ben più illustri economisti ci avevano provato, con scarso successo.
*(gia' pubblicato sul ' il manifesto' del 30 luglio 2000)
Per
esempio, il grande Nicola Georgescu Rogene, un ironico ed enciclopedico economista rumeno, che il nostro Becattini ha avuto il
merito di far conoscere in Italia; e che spiegò una cosa, a pensarci bene, tanto banale quanto inquietante: e cioè che, dal punto di
vista fisico (più precisamente: termodinamico) la produzione materiale è trasformazione di energia utile in rifiuti. Un altro che ci
provò, Herman Daly, ebbe personalmente più successo, perché fu assunto, in qualità di economista-capo, alla Banca mondiale. Ma
non mi risulta che quell'eminente istituzione si sia data molto da fare per fare adottare la sua regola del Pil , che consisterebbe non
già a massimizzarlo, ma nel minimizzarlo. Più precisamente: minimizzare l'input dei materiali, dell'energia utile, immessi nella
produzione, stabilizzare il throughput, cioè, la produzione stessa, e massimizzare l'output, cioè i servizi, le utilità che essa rende al
genere umano (il Pil a dire la verità, è un indigeribile guazzabuglio di queste tre cose). Per perseguire questo scandaloso obiettivo di
equilibrio dinamico, gli economisti dovrebbero abbandonare una buona parte dei territori che hanno abusivamente occupato. Si
capisce che non ci pensino nemmeno. E gli ambientalisti dovrebbero accettare, in vaste zone che considerano di loro assoluta
pertinenza, la sovranità del ragionamento economico. Si capisce che non ci pensino neanche loro.
Però, non solo provar non nuoce, ma diventa sempre più necessario: perché noi stiamo precipitando verso un qualche probabile
collasso ecologico; ma ci comportiamo come quel tale che cade da un grattacielo. Lungo la corsa qualcuno lo chiama sul cellulare
per chiedergli come va. E lui risponde: finora tutto bene.
Per perseguire quell'obiettivo scandaloso e sensatissimo però - hanno ragione Belfiore e Brancaccio - non avrebbe alcun senso
decelerare la crescita. Non solo la caduta sarebbe rinviata solo di poco, ma sofferenze enormi sarebbero inflitte ai più deboli, che
ne sarebbero colpiti per primi. L'area della miseria si allargherebbe e con quella le devastazioni ambientali che non derivano
soltanto dalla irresponsabilità dei ricchi, ma anche dalla disperazione dei poveri.
Insomma, non abbiamo bisogno né di più né di meno: abbiamo bisogno di una crescita diversa. E per questa occorrono nuovi
segnali, nuovi indicatori, meno cretini di quelli sui quali si esaltano gli economisti ciechi e i politici sordi.
Però, come diceva il vecchio Spinoza, è inutile inveire (anche se una certa dose di indignazione resta consigliabile). E' più utile
costruire quei nuovi indicatori di benessere che misurino traguardi di crescita sostenibile. E, soprattutto, esplorare i modi pratici, le
concrete trasformazioni e riforme che si rendono necessarie per realizzare una crescita più equilibrata che minimizzi l'aumento
universale dell'entropia (eliminarlo, fino a quando le leggi della termodinamica tengono, temo proprio sia impossibile).
Anche senza aver costruito quei nuovi parametri di una Maastrich economico-ecologica, penso comunque si possano intuire le
direzioni di una inversione di marcia . Anzitutto, occorre che il sistema dei prezzi sia gradatamente ma sistematicamente corretto
(con incentivi e disincentivi fiscali, per esempio) in modo da spostare sempre più l'asse della produzione dai processi che impiegano
energie non rinnovabili a quelli che impiegano energie rinnovabili e informazione. Si tratta per questo aspetto, non di andare
controcorrente, ma al contrario, di accelerare un processo di materializzazione della produzione di beni e della espansione di servizi,
che è in pieno corso.
Si tratta, inoltre, di interrompere la perversa tendenza allo squilibrio galbraithiano tra beni privati e beni sociali, nella composizione
del prodotto. I beni privati che il consumo sfrenato promuove instancabilmente urtano presto contro la barriera delle cosiddette
scarsità posizionali . Come ci ha ricordato Fred Hirsch (dopo Harrod, dopo Keynes) la competizione nel consumo privato è, oltre
certi limiti, distruttiva: consuma energia e produce frustrazione. I beni sociali, di regola, sono invece beni accrescitivi , soprattutto
quelli immateriali, come la conoscenza generalizzata. Ricordate la storiella del dollaro? Se in due si scambiano un dollaro, ciascuno
resta con un dollaro. Se si scambiano un'idea, ciascuno se ne trova due (a patto ovviamente, che non sia la stessa!). Insomma: le
idee sono ecologicamente oltre che culturalmente positive.
In terzo luogo: occorre estendere il settore non mercatistico dell'economia associativa (leggere il libro di Franco Archibugi, The
associated economics, l'economia associativa, che ha trovato un prestigioso editore angloamericano ma, finora nessuno italiano): il
mondo delle relazioni interpersonali e sociali dirette è no profit. All'orizzonte più estremo dell'opulenza, le società umane possono
riscoprire la gratuità, il disinteresse, la reciprocità, l'economia del dono, l'egoismo dell'altruismo.
Finalmente (e torno all'insegnamento di Hirsch, ma anche a quello di Stuart Mill, economista liberale ignoto ai liberisti) occorre che
l'economia politica rientri nei limiti di un'etica pubblica, di un'etica della società, con buona pace della signora Thatcher e dei devoti
del Dow Jones e del Nasdaq. Bisogna che anche gli economisti ultras si convincano che la terra non è un pozzo senza fondo e che
la mente non è uno spazio vuoto, riservato alla pubblicità.