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Prima del teatro : Lucio, A che punto è la notte di Franco Scaldati

di Valentina Valentina


Nella storia del teatro incontriamo casi in cui la produzione drammatica, non sostenuta da una interna vocazione teatrale, ma esercizio di scrittura letteraria, mal si adatta alla messa in scena, altri in cui lo spettacolo nasce come progetto impossibile, come idea di messa in scena disegnata sulle pagine di un album o descritta con il linguaggio verbale. Ci sono anche casi in cui si scrive per il teatro a partire da una intima e fisica vicinanza con esso, ma il testo letterario è irriducibile alla pluricodicità della rappresentazione teatrale.Queste apodittiche considerazioni sono provocate dalle due performance che Franco Scaldati ha dato a San Nicola Arcella (CS) leggendo una riscrittura, work in progress del Macbeth: A che punto è la notte e un testo suo antico, Lucio (1977) già presentato a Parma nel 1997. Assistendo a questi due magnifici assoli d'autore, si fa più radicata la convinzione che il teatro di Scaldati (se così vogliamo chiamarlo) sia compiuto se è portato in scena, integralmente sostenendo il peso di una partitura a più voci ( Lucio e Illuminata, Pasquale e Crocifisso, Ancilù e Ancilà), dall'autore-attore. Anche nell'usare il termine attore ci troviamo in imbarazzo. Si può chiamare attore lo scrittore che "esegue" in scena il testo che ha scritto utilizzando niente altro che il proprio corpo-voce? (Tralasciamo ovviamente il fatto che Scaldati pratichi anche il mestiere di attore in spettacoli di regia). L'essere attore di Scaldati, nel senso di impersonare un personaggio in uno spettacolo, è una ulteriore verifica del suo essere là, sulla scena (e mi riferisco allo spettacolo Ur-Hamlet, Lenz Rifrazioni 1998) fuori luogo, estraneo , per esprimere il suo disinteresse per il teatro, la scena, il mondo, un trovarsi lì a recitare uno dei due Amleto, non "a contraggenio" come Carmelo Bene, che nel momento in cui rifiuta l'armamentario del teatro, lo riafferma attraverso l'atto vitalistico della sua negazione sublime. Per Scaldati l'essere attore in una messa in scena assomiglia al vagare senza meta e senza costrutto dei suoi personaggi ombre.Scaldati manifestando l'estraneità assoluta alle regole del teatro (qualsivoglia) nello stesso tempo afferma la primarietà del suo essere rapsodo, cantore epico che è capace con il gesto accennato, i timbri e i toni della sua voce, di evocare un mondo e annullare tutto ciò che ha intorno come superfluo, attributo della civiltà del teatro.In questo senso la sua performance di scrittore-attore fa pensare all'antico mestiere dell'aedo, rimanda a qualcosa di originario con il suo ritmo che viene scandito dal corpo-voce-tempo, e le sue storie con personaggi sono liriche ed epiche nel contempo perché raccontano di fatti che non stanno in piedi sulla terra, ma sono sospesi in una dimensione che inverte l'alto con il basso - il cielo sta giù e il mare su - il paradiso e l'inferno, il regno dei vivi con le loro istanze biologiche - il desiderio di cibo e di dormire - e il regno dei morti. Come l'aedo, Franco Scaldati drammatizza il racconto, dà voce a Lucio e a Illuminata, senza la spezzatura che caratterizza il dialogo a teatro: la sua voce , il ritmo del suo corpo ci fa seguire la storia come se fosse una favola con sospensioni, pause, suspense, sollevandola in un mondo che è terrestre e aurorale.Questa dimensione di scrittore-attore - che non appartiene però alla tradizione delle famiglie d'arte - porta un intreccio di nodi che non è facile risolvere. Di nuovo ci chiediamo: a cosa addebitare la non pertinenza della messa in scena dei testi di Scaldati per il teatro? Alla prevalenza dei tratti lirici ed epici rispetto a quelli dialogici? Al loro prescindere dalla concretezza dello spazio scenico per trasportarci in mondi non retti dalle leggi di gravità, coerenza, irreversibilità, centralità? ( Anche il teatro di Shakespeare, fatte salve le differenze - è popolato di creature fantastiche, apparizioni, visioni...).E' ascrivibile all'indebolimento del genere drammatico (iniziato con Ibsen e Strindberg come ci ha insegnato Peter Szondi) e arrivato alle estreme conseguenze con Beckett e Müller? Eppure il teatro di Beckett è rappresentabile, sopporta la messa in scena, anzi questa è già inscritta nella pagina, nella struttura drammaturgica che iconizza la parola, la rende gesto e cosa, interscambiabile con il movimento iterato di oggetti e parole. Il teatro di Müller, lasciandosi alle spalle completamente le connotazioni del genere (dialogo, personaggi, didascalie) rende autonomo il testo dalla messa in scena alla quale comunque fornisce una base di situazioni e figure connotate socialmente e storicamente, ancorate a un immaginario che è di questo mondo che produce macerie e violenze.Nel teatro di Beckett la vita è sottratta, rarefatta, si è ritirata e la soglia che congiunge il personaggio autorecluso al vivace mondo, è una possibilità ,come l'urlo che coincide con il culmine dell'azione impossibile da spegnere. Nel teatro di Scaldati circolano, al contrario colori, passioni, azioni tenere e sentimenti amorosi, serenate, tripudi di fiori , aurore e notti rischiarate da stelle e luna. La ricchezza e la bellezza della natura è assaporata sensualmente attraverso le fragranze delle pietanze, la freschezza variata di forme e sapori degli elenchi di verdure - da banchetto al mercato dell'Albergheria; -I corpi si attraggono anche se sono mutilati, non integri , mostruosi in quanto fanno prodigi. Quello di Scaldati non è un teatro di ombre disincarnate, anche se le creature che lo abitano sono simboli, fantasmi, esseri dalle incerte e multiformi identità: Lucio - doppio con Illuminata - è il poeta-commediante, è la tenebra della creazione e la luce della bellezza.Se sosteniamo che quello che chiamiamo il teatro di Scaldati ha tratti epici e lirici (la contraddizione e negazione del drammatico) non si intende però che è "teatro di poesia", in quanto il narratore-attore ha la capacità di trasportare lo spettatore nel suo mondo grazie al ritmo del suo corpo-voce. e di coinvolgerlo in un flusso narrativo in grado di evocare mondi senza bisogno di rappresentazione. E allora viene subito in mente un genere codificato come la tradizione dei cantastorie e dei "cuntisti". Ma il teatro di Scaldati non si inscrive in questi repertori, per quanto aggiornati e contaminati. Se mai, il tratto epico del teatro di Scaldati appartiene a un 'oralità preteatrale, prima del suo sorgere come genere e dopo la sua sparizione come genere. Ma non è un inno alla fine, allo scardinamento delle tavole del palcoscenico occidentale - come per Carmelo Bene - quanto un messaggio aurorale di rinascita a partire dalla voce che imprimendo il suo ritmo al corpo si fa immagine, figurazione, racconto.


Franco Scaldati , scrittore-attore (cfr. Il teatro del sarto, Ubulibri, Milano, 1990 e, a cura di V. Valentini, Franco Scaldati, Rubbettino, Soveria Mannelli,1997, libro con allegato compact) ha tenuto a San Nicola Arcella nell'ambito della seconda edizione della rassegna teatrale "Escursioni Teatrali" (25 luglio-8 agosto) diretta da Pasquale Lanzillotti per il Tic Teatro, un laboratorio al quale hanno partecipato giovani attori e insegnanti, sulla sua riscrittura del Macbeth che ha presentato al pubblico come prima fase di un lavoro in corso d'opera, A che punto è la notte. Per novembre del 2001 l'Università della Calabria (il Centro Arti Musica e Spettacolo) sta programmando una manifestazione (a cura della scrivente) dedicata allo scrittore-attore, che si articolerà in un convegno, un ciclo di letture e la pubblicazione della trilogia shakespeariana di Scaldati.




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