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Furamòbil: lo slogan vince sullo spettacolo

di Valentina Valentini



Nel mondo dell'arte e dello spettacolo ci sono dei nomi cult sui quali aleggia un alone mitico che, più che da un'effettiva conoscenza, è frutto di "sentito dire". La Fura dels Baus è un esempio. Il gruppo catalano si è conquistata una certa risonanza nell'immaginario collettivo (non solo di chi era giovane negli anni Settanta, ma anche della generazione ultima) fatta di radicalismo metropolitano con qualche sfumatura punk, immagine che è riuscito a proteggere attraverso i passaggi sopravvenuti in questi anni che hanno comportato per molti artisti l'accettazione delle regole produttive di mercato e la stilizzazione formale del proprio lavoro. Il fascino esercitato dalla Fura invece è rimasto integro anche quando è passata a impersonare parti certamente antagoniste rispetto alle sue tradizionali come il tenere a battesimo (per pubblicità) l'ultimo modello di auto della Mercedes.
Nato nei primi anni Settanta, il gruppo catalano ha scelto fin dall'inizio come spazio scenico la strada, secondo una tendenza che in quegli anni accomunava le formazioni più radicali della scena internazionale. Antesignani: il Living Theatre, il Bred and Puppet, l'Odin di Eugenio Barba, che intendevano portare il teatro in luoghi dove non c'era, attraendo il passante casuale che si sofferma a guardare spontaneamente l'evento imprevisto. Da questa premessa è scaturita la strategia del gruppo che enfatizzava linguaggi e azioni vistosamente spettacolari, capaci di attirare l'attenzione perché fuori scala rispetto alle convenzioni della scena teatrale, per l'uso di materiali grezzi e di origini industriale o naturale come la terra, il fuoco e per comportamenti violenti, il "lenguaje furero". Simbolo del loro teatro plastico-performativo è l'automobile, all'inizio chiamata semplicemente a rappresentare l'icona di una civiltà industriale colpevole di aver violentato l'uomo e la natura, da cui discendevano i riti luddisti di ribellione nei confronti del suo dominio e l'affermazione di neo-tribalismo ambiguamente oscillante tra seduzione tecnologica ed istintualità primitiva. Negli anni Novanta - e Furamòbil presentata a Cosenza e in altre città italiane ne è un esempio - l'automobile si declina in senso cyber, seguendo le tendenze alla moda che professano il "post-umano" (Stelarc e altri), per cui pretenderebbero, con il Furamòbil, di esprimere la fusione tra macchina spettacolare e corpo collettivo degli spettatori partecipanti. Infatti, il movimento del double decker bus che è il protagonista assoluto della performance del Furamòbil è prodotto dall'energia muscolare degli spettatori che si coinvolgono, salgono sul camion ed eseguono dei movimenti, contribuendo tutti insieme, a far funzionare l'organismo, così che ciascuno "recupera la sensazione di sentirsi necessario e solidale con la società" secondo l'ipotesi della Fura dels Baus e si dimostra che lo spettatore è necessario a far vivere lo spettacolo - in questo caso la macchina, non più protesi del corpo, ma integrata al corpo, parte di esso.
Se si pensa che le azioni e le immagini che hanno fatto conoscere il gruppo sono legati essenzialmente a performance di strada in cui inscenavano battaglie metropolitane proprio contro i corpi delle automobili, residuati industriali da riciclare per sculture effimere, simbolo dei valori del capitalismo di cui fare un gran falò purificatorio per una ritribalizzazione della vita, le attuali perfomance del Furamòbil esprimono senza dubbio una visione conciliante del mondo, una simulazione di partecipazione (investimento energetico) per una simulazione di produttività (la messa in movimento del bus come effetto pragmatico dell'azione degli spettatori). La loro espulsione dal corpo-macchina - vissuta come il termine graziosamente ludico e un po' deludente del giro su una delle tante attrazioni offerte dal Luna Park - permette ai nuovi volontari di prendere il loro posto.
Letterale la metafora che il grande camion incarna: un farraginoso organismo che ingoia e schiavizza per gioco gli individui (antesignano: Metropolis, macchina antropomorfizzata della produzione industriale che riduce gli uomini a ingranaggi di qualcosa che li domina completamente). L'estrinsecazione di tale originaria metafora (non è stato Menenio Agrippa a usarla per convincere la plebe romana a non ribellarsi ai patrizi perché tanto il corpo sociale è come un corpo umano in cui ogni organo svolge la sua funzione in rapporto di reciprocità con gli altri?) avviene tramite due figure collettive: i dominatori che incitano i sottoposti a lavorare (consumare energia) affinché la macchina-mostro funzioni, spargendo, la Fura, non più fuoco, ma acqua a spegnere improbabili incendi, e gli antagonisti, il popolo dei dominati, composto da spettatori volontari.
La questione su cui è interessante soffermarci per trarre qualche bagliore da un evento noioso che ha mostrato uno scompenso notevole fra enunciazioni progettuali (che avevano insolitamente circolato come informazione e creato un'aspettativa) e l'effettiva performance, è sostanzialmente il mito della partecipazione dello spettatore che vede attualmente i risultati più eclatanti con le installazioni multimediali e interattive.
Il popolo di volontari che è salito sul camion e si è adoperato di buon grado a far finta di pedalare, spingere, manovrare per poi alla fine essere catapultato fuori in modo soft, da cosa traeva piacere? Dal sentirsi parte di un rito? E per celebrare cosa? Il godimento masochista di essere violentati da finti carnefici? Il semplice meccanismo ludico?
A differenza dello spettatore che batte con le mani sui tavoli predisposti da Studio Azzurro (Tavoli, 1996) e quel suo percuotere provoca l'affiorare rapido e improvviso di immagini sul fondo del tavolo che così viene animato e drammatizzato dall'intervento del visitatore, nel caso del Furamòbil, la partecipazione attiva non determina una prestazione particolare del congegno.
Lo scompenso fra slogan alla moda (cibernetica, teatro digitale, arte e scienza...) e performance, è espressione di un tentativo riuscito di adeguamento del gruppo alle nuove tendenze del mondo dell'arte (visiva piuttosto che teatrale) basato sull'aggiornamento di facciata di concetti (risciacquati nelle reti internet) come quello di partecipazione, che appartiene storicamente alla scena d'avanguardia degli anni Settanta, e che oggi sono, con un'operazione opportunista, riverniciati con slogan e colori di fine millennio. Di fatto viene assimilato superficialmente ciò che nel contempo è rifiutato - la tradizione delle avanguardie - e presentato con parole d'ordine alla moda dietro le quali la matrice originaria è scomparsa.
La smemoratezza (intrinseca alla natura dell'evento teatrale o propria dei tempi e delle ideologie che lavorano contro la memoria storica) è totale rispetto a una tradizione cui pure la Fura dels Baus appartiene e che invece di rimuovere per l'ansia mercantile di essere prodotto più facilmente appetibile, dovrebbero consapevolmente difendere e innestare nel presente.



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