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I viaggiatori stranieri e l'emigrazione
di Maria Rosaria Costantino
Chi ha voce vince il cacio : questo proverbio di San Costantino di Briatico, ricordato
da Raffaele Lombardi Satriani, è riferito alla condizione di mutismo, di sudditanza
e di assoluta subalternità in cui si sono trovate le popolazioni calabresi, specie
quelle rurali, per secoli, e sta a significare che solo chi sa farsi ascoltare sa farsi
valere.
Una condizione che non scopro io, ma che è sintomatica di una cultura, considerata
sub-cultura o addirittura non-cultura; una condizione non originaria, direi, ma originata
dallo "sguardo" di chi si avvicina con pregiudizio, con una propria ideologia "sottesa", per usare un'espressione di L.M. Lombardi Satriani.
Una condizione che ho individuato non attraverso gli studi di storici o di pubblicisti
né di meridionalisti, ma attraverso le testimonianze lasciateci da alcuni viaggiatori
che dall'estero o dal nord Italia sono venuti in Calabria e hanno assistito al fenomeno dell'emigrazione come estrema "ratio" nel tentativo di farsi valere e di "contare"
qualcosa nella storia.
Ma diamo voce (anche noi, stavolta sì) ad alcuni di questi viaggiatori: Questi uomini
- scrive Caterina Pigorini Beri (cfr. In Calabria, Casanova, Torino 1892) - che fan
capolino nelle stazioni ferroviarie colla loro pipa in bocca e la faccia scura e
mesta, emigrano: vanno nell'America, come dicono essi, a cercarvi fortuna e lavoro. Popolo
avventuroso e ardito non trova nulla a casa sua, che trova piccino il suo campo e
che ha bisogno di varcare gli spazi per sentir di vivere, parte senza guardarsi indietro .
E Norman Douglas (cfr. Old Calabria, Secker & Warburg, London 1915), dall'alto della
sua sicumera e dello scetticismo, così si rivolge al tipico calabrese: Sei trattato
male, amico mio? Ci credo, davvero lo vedo. Be, va' in Argentina a vendere patate
o nelle miniere della Pennsylvania. Lì diventerai ricco come gli altri tuoi compatrioti.
Poi torna e manda i figli all'Università, fa' che diventino avvocati e membri del
Parlamento, in modo che possano vessare, trascinandoli alla tomba, i malvagi proprietari
di queste terre .
Ma la condizione più autentica dell'emigrante calabrese mi sembra rappresentata soprattutto
da George Goyau (Cfr. Revue des deux Mondes, 1898): Nelle stazioni ferroviarie dell'Italia
meridionale capita assai spesso di scorgere miseramente rannicchiate in fondo alle sale d'aspetto, tra i mucchi delle loro robe di casa, intere famiglie pronte
a partire, visibilmente stupite di quanto si svolge sotto i loro occhi, stupite persino
della pietà curiosa che talvolta esse destano in chi le guarda. E' povera gente che, nel dare l'addio all'Italia, il più delle volte si illude di darlo soltanto per
poco, provvisoriamente, e non dispera di tornare a morire di vecchiaia sul suolo
dove non vuole morire di fame.
E discendono dalle loro montagne natie, partendo dai loro lontani paesi, dalle gole
della Sila o dalle alture della Basilicata, questi esseri sventurati, si trovano
subito a contatto della civiltà che si forma intorno alle strade ferrate, come solo
è possibile trovarsi a contatto delle apparizioni impalpabili d'un sogno: e si fermano dinanzi
alle fontane, esitano dinanzi agli sportelli, tremano dinanzi alle locomotive: tutto
per essi è nuovo, tutto appare loro come qualcosa di magico. E' come una merce di
esportazione che si imballa negli scompartimenti; è tutto un gregge umano che si fa
poi discendere in una delle città della costa, dove si formano i battaglioni della
miseria in partenza per l'America del Sud. Gli infelici sono così spediti laggiù,
nelle terre che devono dissodare, bonificare, preparare all'opera di coltura; le regioni
in cui vengono cacciati sono più vergini ancora, si può quasi dire selvagge, di quelle
parti remote dell'Italia che furono la prima loro dimora; dal loro punto di partenza
al loro punto di arrivo essi hanno attraversato la civiltà contemporanea come il viaggiatore
frettoloso attraversa un'oasi in mezzo al deserto, ma non sono purtroppo destinati
a goderne, ad esservi iniziati, a parteciparvi, che in modo assolutamente passivo, solo in quanto ne diventano vittime .
Un quadro, come si vede, agghiacciante e desolante! Più di quello che, in questi giorni,
ci mostrano le televisioni di tutto il mondo sull'esodo albanese o curdo!
Una condizione di estremo disagio ha, dunque, attraversato la Calabria, e continua
ad attraversarla ancora oggi in maniera, forse, meno eclatante ma certamente più
drammatica di ieri. Alle masse di contadini del passato si sostituiscono infatti
oggi le masse dei diplomati e dei laureati in cerca di una prima occupazione e portatori di nuovi
bisogni sociali, diversi da quelli del passato, formati nella vecchia scuola di Stato,
ma anche con i mezzi di comunicazione di massa, abituati alla mobilità e alla nuova civiltà degli scambi.
Per tale motivo è necessario sfatare il pregiudizio che i giovani calabresi sarebbero
superficiali, svogliati, culturalmente e politicamente disimpegnati, insensibili
a qualsiasi stimolo esterno.
Invece, il fatto è che Catanzaro, ad esempio offre ai suoi abitanti il livello di
vita più basso d'Italia, per cui ai giovani non resta che sostare ai giardini di
San Leonardo, o in Piazza Municipio a Vibo Valentia; unica alternativa l'emigrazione
(ancora) al Nord, con tutte le incognite, le frustrazioni, le incomprensioni che tale fenomeno
comporta, soprattutto in un periodo come questo in cui c'è un rigurgito di razzismo
alimentato dal delirio di qualche senatore (sic!).
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