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INTERVISTA AD ALAIN DE BENOIST

di Michelangelo Cimino
(ha collaborato alla traduzione Stefania Corbi)


Con l'intervista ad Alain de Benoist continua il breve itinerario nell'universo culturale della Nuova destra, iniziato nel numero precedente. Ai temi trattati si collega anche la recensione del libro di Francesco Germinaro su Julius Evola

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Il breve e lacunoso ritratto intellettuale dell'Alain de Benoist filosofo e teorico della Nuova destra (definizione che, peraltro, egli rifiuta), abbozzato in questa intervista, appare lontano le mille miglia dall'immagine sulfurea e inquietante che se ne aveva. Al contrario, egli appare come un intellettuale di "terza forza", per nulla settario, il cui sguardo sul mondo, arcigno e allo stesso tempo candido, mutua elementi appartenenti sia alla sinistra cosiddetta critica, sia alla destra anti-liberale e comunitaria. La sintesi che egli sviluppa dall'incontro di questi due filoni (o tradizioni) politico-culturali riserva non poche sorprese.

Signor de Benoist, l'accusa più ricorrente che le viene rivolta è quella di essere un razzista mascherato. Ovvero di nascondere le sue forti pulsioni razzistiche "dietro l'ossessione delle differenze" culturali (per dirla con Pierre-André Taguieff). Cosa risponde?

Tra un "razzista mascherato" che denuncia il razzismo e un anti-razzista che fa lo stesso, gradirei che mi si spiegasse la differenza! So bene che, dopo Freud, tutte le negazioni possono essere intese come conferma del sintomo. Ma in tal modo, Marx potrebbe ben essere considerato come un "anti-comunista mascherato". Ora, si dà il caso che io non mi sono limitato ad affermare che non sono razzista. Ho pubblicato tre libri (di cui uno intitolato Contra el racismo [così nel testo, ndt]) e decine di articoli per dimostrare la falsità intrinseca delle teorie razziste. Qual è l'autore "di destra" che ha fatto tanto? E cosa aggiungere di più?
Il termine "razzismo" designa due cose. Da un lato, sul piano ideologico, una dottrina che fa della razza il fattore principale dell'esistenza umana; dall'altro, sul piano sociologico un'attitudine di sistematica ostilità verso uno o più gruppi umani. Il razzismo teorico è ai miei occhi insostenibile: la razza, al pari dell'economia non è il concetto essenziale che permette d'illuminare la storia. Quanto al razzismo sociologico, esso non è che una delle varianti della paura dell'altro [nel testo: altérophobie, ndt], vale a dire dell'incapacità di riconoscere il valore delle differenze e il carattere positivo dell'alterità. Ho orrore delle paure, quali esse siano, e in particolare della xenofobia, che rivela ciò che Heidegger chiamava molto giustamente la metafisica della soggettività. Tutta la mia filosofia verte sul rigetto di tutti gli atteggiamenti consistenti nel porre l' "Io" o il "noi" (che non è che un "Io" allargato) come criterio del valore e della verità.
Io non ho affatto l' "ossessione" della differenza. Constato solamente che viviamo in un mondo dove le identità culturali, i modi di vita differenziati, tendono man mano ad essere sradicati dalla logica del capitale, mediante questa Forma-Capitale che omogeneizza il sociale assoggettandolo all'immaginario della merce. Non c'è niente [nel mio pensiero, ndt] che possa legittimare una nuova forma di razzismo. Pierre-André Taguieff, che lei cita, ha finito egli stesso per convenirne. Si legga, per esempio l'intervista pubblicata nella rivista italiana "Una Citta" (Razzismo e differenza, gennaio-febbraio 1996). In quell'intervista Taguieff dichiara esplicitamente che la mia posizione può essere considerata come "una forma moderata di relativismo culturale che si può ritrovare in Lévi-Strauss e che trovo del tutto legittima". Per la verità, coloro che mi accusano di essere un "razzista mascherato", semplicemente non comprendono che cosa sia il lavoro del pensiero. Un uomo politico può dire il contrario di ciò che pensa, poiché la finalità delle sue intenzioni è quella di accedere al potere. Un intellettuale non può, perché la sua opera è la sola cosa che resterà di lui.

Se non le dispiace, vorremmo rimanere ancora su questo tema. Se, come da più parti si sostiene, un'altra copertura di questo suo presunto razzismo è rappresentata da un rifiuto ostinato, senza mediazioni, del modello culturale americano, non crede si possa trovare una maniera accettabile per preservare la propria identità e diversità e al contempo evitare il rischio di (auto)ghettizzarsi?

Il modello culturale americano per il fatto stesso che è americano, si distingue necessariamente dal nostro. Ciò non significa che abbia soltanto difetti, tutt'altro (io stesso ho la più grande simpatia per autori come Christopher Lasch o Michael Sandel), ma soltanto che non è necessariamente adatto alla realtà umana e sociale dei paesi europei.
E' legittimo a mio parere voler difendere e conservare la propria identità. Tuttavia bisogna interrogarsi sul significato di questa parola, che non deve ridursi a slogan o a fantasmi. L'identità non è essenza ma sostanza. Non è qualcosa di immutabile, ma ciò che caratterizza il nostro modo individuale di cambiare. Infine, essa è indissociabile da un racconto, da una narrazione attraverso la quale il soggetto costruisce se stesso mediante ciò che ha ereditato e ciò che ha scelto. Le stesse identità ereditate sono oggi delle identità scelte, nella misura in cui esse sono operanti se non per la parte che si accetta o in cui ci si voglia riconoscere. La mia concezione dell'identità è dunque radicalmente opposta a quella degli xenofobi, i quali ne fanno un pretesto per dirsi superiori o credere che la propria cultura non debba nulla alle altre. Il diritto alla differenza è per me un principio che non vale se non per la propria generalità. Chi non è disposto a riconoscere l'identità degli altri, chi pensa che l'identità degli altri minacci la sua propria, farebbe meglio a tacere.

La sua avversione per l'universalismo livellatore, di culture e differenze trova attenzione, e sia pure per ragioni diverse da quelle che muovono la Nuova destra, in frange minoritarie della sinistra italiana. Esiste infatti nel paese delle cento città una sinistra a-marxista, antistatalista, federalista, comunitarista, antieconomicista, antiutilitarista, ambientalista ecc. i nomi dei cui esponenti di maggior rilievo le saranno noti. Le affinità fra le tematiche di questa sinistra eterodossa e quelle della Nuova destra sembrerebbero, in apparenza superare le divergenze. Ecco: se lei dovesse enumerare le une e le altre da dove inizierebbe?

Ho molta simpatia per questa sinistra. In un mondo dove il futuro è sempre più posto sotto il segno della fatalità - tutti i media veicolano l'idea che viviamo in un solo sistema possibile - essa ha l'immenso merito di mantenere viva la fiamma del pensiero critico. Rifacendomi alle idee di ciò che lei chiama la "Nuova destra" - etichetta che non ho mai apprezzato e che non utilizzo più -, non c'è dubbio che le affinità prevalgano largamente sulle differenze.
Le affinità sono quelle da lei descritte: critica dell'ideologia dello sviluppo, forte sensibilità ecologica, anti-utilitarismo, accento posto sul localismo, rinascita delle comunità come luogo privilegiato di una riappropriazione della dimensione politica del sociale, federalismo fondato sul principio di sussidiarietà ecc. Alcune di queste preoccupazioni coincidono largamente con le tematiche post-moderne. L'epoca in cui viviamo è quella del crollo contemporaneo delle "grandi narrazioni" ideologiche, che un tempo mobilitavano le masse suscitando presso di esse forme di impegno quasi sacerdotale, come altrettanti sostituti esistenziali della fede; e dei grandi apparati politico-burocratici.
Le divergenze sono più difficili da circoscrivere. Ci sono, certo quelle che risultano dalla diversità dei percorsi individuali. Una tale diversità lascia sempre delle tracce. Ma fondamentalmente, io direi che ciò che sovente mi sembra manchi in questa sinistra anti-economicista, e dunque a-marxista, è una riflessione su alcune questioni essenziali, riguardanti per esempio la natura umana, le condizioni per l'instaurazione e il mantenimento del legame sociale, la natura del politico, le finalità dell'esistenza collettiva ecc.
Una delle mancanze della destra è di essere essenzialmente reattiva: essa è indifferente alle idee, disprezza il lavoro del pensiero, non si muove che sotto l'effetto dell'entusiasmo o dell'indignazione. Una delle mancanza della sinistra è porre la politica alle dipendenze della morale: l'aspirazione cioè ad avere una società moralmente migliore ("più giusta"). Questo moralismo non mi sembra necessario all'azione politica. Per fare un esempio: si può combattere l'ineguaglianza economica per delle ragioni morali, ma si può anche combatterla perché troppo grandi squilibri di reddito creano insopportabili tensioni politiche e sono nemiche del bene comune. Altro esempio: la retorica delle destre non mi sembra il modo migliore di difendere le libertà. Non è un caso se l'ideologia dei diritti dell'uomo, a causa dei suoi fondamenti individualistici, legittima indirettamente l'estensione di un certo capitalismo mercantile. Il problema della libertà (lotta contro l'oppressione, la tirannia) è per me un problema politico, che deve essere risolto politicamente. Non esiste libertà individuale, in una società che non è globalmente libera. La retorica dei diritti maschera le nuove forme di alienazione umana. E' forse a partire da questa considerazione che bisogna analizzare il tragico scacco del progetto di emancipazione portato avanti dall'ideologia dei Lumi: l'avvento di una società totalmente regolata, dove si affermano i diritti di ognuno, ma dove il sociale è sempre più sottomesso all'implacabile logica del capitale.

Pietro Barcellona sostiene che le tematiche proprie della Nuova destra (antiliberismo, antiglobalismo, rifiuto della tecnica, "antiamericanismo" ecc.) "recepiscono aspetti del senso comune", che appartengono tanto alla destra che alla sinistra. Sono, insomma trasversali ai due schieramenti politico-culturali. Questa caratteristica, ovvero l'appartenenza al senso comune, è intenzionale, voluta; oppure è effetto di un equivoco?

Apprezzo molto Pietro Barcellona e trovo che la sua osservazione sia totalmente esatta. Non penso affatto che questi nuovi clivages [smottamenti, ndt] "trasversali", siano l'effetto di un equivoco o di un'illusione, né d'altronde che siano pienamente voluti. Essi mostrano soltanto che abbiamo cambiato epoca. Alcune idee che erano state coltivate soprattutto a destra, passano oggi a sinistra (ad esempio, la critica dell'ideologia del progresso), mentre altre che erano state coltivate soprattutto a sinistra passano a destra ( ad esempio, la critica del mercato). Ne risulta che le nozioni di destra e sinistra non sono più efficaci per comprendere il paesaggio politico-intellettuale che abbiamo di fronte. Se qualcuno mi dicesse che è "di sinistra" - o "di destra" - non saprei praticamente nulla di ciò che pensa. Tutti i grandi avvenimenti degli ultimi anni (costruzione europea, guerra del Golfo, riunificazione tedesca, intervento dell'Occidente nel Kossovo ecc.) hanno creato degli smottamenti all'interno delle famiglie politiche. E' l'annuncio di una ricomposizione [tra destra e sinistra, ndt] di cui mi rallegro. Solo il gioco parlamentare dà l'illusione che la dialettica destra-sinistra come la si è conosciuta da due secoli, conservi ancora il suo valore.

(fine prima parte)



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